giovedì 24 dicembre 2015

La stella sul tetto, di Eleonora Bellini

L'uomo pedalava lentamente lungo le strade della città che nella notte imminente si sfollavano in fretta. Nell'aria volteggiavano fiocchi bianchi, un accenno di neve, indeciso, che svaniva nell'aria mentre la strada restava sgombra e grigia.
Sotto il tabarro l'uomo reggeva una grossa sacca con i regali e, nel risvolto della giacca, un gatto che aveva trovato smarrito appena fuori città, sulla strada del ritorno.
- E siamo già a Natale – disse l'uomo – anche questo 1926 se n'è andato -.
- Miao, sì! - rispose il gatto.
- Passano in fretta – aggiunse l'uomo.
- Miao, io ne ho già cinque, di anni – continuò il gatto.
- E io cinquanta, dieci volte più – replicò l'uomo.
Arrivarono alla casa dell'uomo. Dalla finestra al piano terreno si vedeva danzare la luce del fuoco nel camino. La bambina era in piedi davanti al tavolo del presepe, guardava attentamente le statuine e il paesaggio. Una donna dall'aspetto stanco era seduta su una poltroncina accanto al fuoco.
- Anche la bambina ha cinque anni – mormorò l'uomo.
- Miao. Entriamo, che cosa aspetti? - lo esortò il gatto.
- La bambina ha paura dei gatti – sussurrò l'uomo.
- Miao! - sussurrò anche il gatto e sgattaiolò sul tetto. Si distese al tepore delle tegole accanto al camino.
- Miao, Miao! Entra, Entra! -
L'uomo aperse piano la porta. La bambina lo guardò e non si mosse. La donna alzò piano la mano in un cenno di saluto.
- Ecco qua! – esclamò l'uomo posando la grossa sacca sul tavolo – Ecco le strenne! -
Tolse dalla sacca due manciate di noci, un torrone, tre grosse arance, un barattolo di mostarda, un grosso cacio e un sacchetto di biscotti e lunghi grissini e miele e zucchero avvolto in carta azzurra e un fiasco di vino rosso e un piccolo, sottile, parallelepipedo di carta dorata. Tutto profumava di freddo.
Tese alla bambina lo stecchetto di carta dorata:
- Assaggialo, mangia. Questo è speciale! – le disse.
- Che cosa è? - chiese la bambina.
- Cioccolato, è speciale – disse l'uomo – fallo assaggiare anche alla mamma -.
Mentre masticavano piano, l'uomo si avvicinò al fuoco, versò del vino in un pentolino, vi aggiunse un poco di zucchero e un legnetto che tolse dalla tasca.
- Perché metti un legnetto nel pentolino? – chiese la bambina.
- Non è un legnetto, è una stecca di cannella. Preparo il vin brulé. Sentirai com'è buono. Lo berremo dopo cena, prima di uscire -.
- Perché dobbiamo uscire, se è notte? - chiese la bambina.
- Perché è Natale, nasce il bambinello. Si fa festa. - rispose l'uomo.
La donna accanto al camino si strinse più stretta nello scialle.
La bambina disse: - Il cioccolato è buono -.
Il babbo le sorrise e la esortò: - Allegria, allegria, nasce il bambinello.
Versò il vin brulé fumante e lo porse alla donna:
- Bevi, che questo ti fa bene.
- Penso all'Annetta, Luigi – mormorò la donna.
Non ti preoccupare, Maria – la rassicurò l'uomo – l'Annetta è una donna, ha marito e non ha bisogno di noi -.
-  Assaggiane poco anche tu – disse poi alla bambina porgendole la tazza piccola – è dolce, ti farà bene. Non avrai freddo quando usciremo -.
Frugò poi ancora nella sacca e molto delicatamente, lentamente, sorridendo tra sé, ne tolse una bambola, una bambola con l'abito rosa, la cuffietta ornata di fiori e il volto di porcellana.
- Tieni, è tua – disse alla bambina – Allegria, che stanotte nasce il bambinello e noi andiamo a vederlo! -
La bambina prese in braccio la bambola e l'accarezzò stupita: com'era bella!
- Grazie, papà – disse – Io non voglio uscire, però, voglio restare qui con la bambola.
- Ti porterò in braccio – disse l'uomo, non ti stancherai. La bambola resterà ad aspettarti -.
Cenarono con le cose buone che il babbo aveva portato. Quando fu tardi, molto tardi:
- Andiamo - disse l'uomo – è ora.
Uscirono. La mamma avvolta nello scialle pesante, le mani chiuse nel manicotto, il capo chino, la bimba in braccio al babbo, con il naso sopra la stoffa ruvida del tabarro.
Si udì uno scricchiolio sul tetto. Era il gatto che voleva salutare l'uomo. Ma:
- Che cosa c'è che si muove sul tetto? Ho paura! - piagnucolò la bambina.
- Non è nulla, è una stella – disse il babbo mentre il gatto immobile chiudeva stretto un occhio e spalancava l'altro il più possibile.
- E' vero, papà – vedo una stellina sul nostro tetto – disse la bambina guardando in su. E sorrise.
 
 
© Eleonora Bellini, 24 dicembre 2015. Per Maria e Luigi, i nonni sconosciuti.

lunedì 21 dicembre 2015

I racconti del maresciallo, di Mario Soldati

Gigi Arnaudo, maresciallo dei Carabinieri, è in servizio in paesi e borghi diversi, tra valle padana e prealpi piemontesi. E' persona integerrima e riflessiva, il lato del suo mestiere che più gli dà piacere sta "nell'investigazione, nella ricerca, nello sforzo di capire e scoprire". Nei quindici racconti di questo libro, che ispirarono l'omonima serie televisiva la cui prima puntata venne trasmessa nel gennaio 1968, possiamo leggere storie poliziesche ambientate nel variegato quotidiano di cittadine di provincia nelle quali il maresciallo dei carabinieri, per quanto  timido e riservato sia, come è il caso di Arnaudo, è comunque personaggio in vista. Deve dunque saper dosare abilmente vita privata e amicizie, lavoro d'investigazione e cura dell'ordine pubblico.
 
 
Arnaudo incontra piccoli malfattori, talvolta pittoreschi: ladruncoli, millantatori, infedeli, truffatori. Figure che rispecchiano, non senza ironia, il mondo della provincia italiana degli anni del boom, della quale questi brevi racconti polizieschi tracciano un ritratto quanto mai realistico, non trascurandone, quando vi si manifestino, né la povertà culturale, né la meschinità: "... esistono alcuni atti umani che mi hanno fatto sempre andare in bestia e che non esito a definire criminosi, anche se, codice alla mano, non siano, forse, nemmeno punibili: non siano, insomma, vere infrazioni alla legge. Il peggiore di tutti questi atti, secondo me, è quando alcuni individui, trovandosi insieme riuniti, si divertono e godono alle spalle di un loro simile che, in quel momento, dà spettacolo della propria sofferenza". (pag. 219).
 
Mario Soldati, I racconti del maresciallo, Mondadori 1967. (Ristampati nel 2004 da Sellerio Editore)


domenica 20 dicembre 2015

Dell'aggressione a biblioteche (e bibliotecari)

Da circa otto anni sono, insieme ad altri, periodicamente (due tre volte l'anno) sottoposta a colpi di mitraglia che spietatamente martellano: le biblioteche sono istituzioni del passato, i libri sono inutili, tra un anno o poco più i libri spariranno tutti e la lettura (se resisterà) sarà solo su supporti digitali, ma ci vuol proprio un impiegato per catalogare, cioè per mettere un libro lì sullo scaffale?, i sistemi bibliotecari (le reti bibliotecarie) son cosa vecchia, le piccole biblioteche si dotino di LIM (!!!) per i ragazzini, invece di mandare in giro casse di libri, e altre amenità, che vi risparmierei, miei 25(mila) lettori, se non fosse che provengono da sede istituzionale.
 
 
"Le biblioteche sono il filo rosso posto tra civiltà e barbarie" scrisse Neil Gaiman, autore di romanzi, sceneggiature (Coraline, Stardust), fumetti: non un barbogio.
"Il luogo in cui ho saputo chi ero e chi sarei diventato: è la biblioteca municipale" ebbe ad affermare Jerzy Kosinski (L'uccello dipinto, Passi, Oltre il giardino) scrittore polacco vissuto negli States. Si è poi suicidato, ma non prima di aver visto il mondo.
"La sola cosa che avete assolutamente bisogno di conoscere è l'indirizzo di una biblioteca" affermava Albert Einstein ed era uno scienziato, non (perdonate il secondo termine, ma sto citando) "uno sfigato cultore di materie umanistiche".
"Qualunque sia il costo delle nostre biblioteche non è nulla se paragonato a quello di un popolo ignorante" affermò il giornalista e conduttore televisivo statunitense Walter Cronkite, personaggio acuto e sereno. Già, ma se non contassero su quella parte di cittadini che è incolta, supponente e arrogante, quanti amministratori di un certo tipo sarebbero eletti? mi chiedo io.
"Che cosa potremmo fare di buono senza le biblioteche?" ebbe a domandarsi Katharine Hepburn, attrice dotata di corpo e di mente, non certo una "bibliotecaria dimessa con occhiali" (cito, ma questa volta cito solo una convinzione ed un pensiero, non una voce udita").
"Scavo nelle biblioteche comunali, spesso ricolme di tesori sommersi" diceva Virginia Wolf, scrittrice acuta. Eh, nonnò Wolf! Qui  invece si dice, ammonisce, aggredisce: "Quante volte è stato letto questo libro? Due? E allora lo butti!". Qui così mitraglia la mitraglia. Fortunatamente, non essendo io gerarchicamente sottoposta alla sferza mitragliante, non lo faccio. Altrimenti, seguendo questo principio, dovrei disfarmi di tutte le Cinquecentine e dei volumi dei secoli seguenti fino a... Chi lo giudica? E come? Dobbiamo forse istituire una "dittatura temporanea per l'eliminazione del libro?". C'è già stata, ogni tanto ritorna. Finora, per fortuna, è poi fallita.
"Ho sempre immaginato che il paradiso fosse una specie di biblioteca" scrisse Borges, ma era un sognatore di poca vista e coi piedi per aria, commenterebbe la mitraglia.
"Le nazioni civili costruiscono biblioteche, i Paesi che hanno perso l'anima le chiudono" si lasciò scappare Toby Forward, creatore di Dragonborn, neanche lui un barbogio incollato al passato.
 
 
E qui torniamo alla nostra (quasi) miseranda realtà: una biblioteca ricevuta in dono (palazzo, giardini che lo circondano, isolato di altri palazzi per trarne proventi e sostenerla) costantemente sottoposta a colpi di mitraglia nel silenzio (quasi) generale: ristrutturazioni invasive e adatte più ad obitori, hangar, depositi che alla tipologia ideale per ambienti di lettura; noncuranza (esposizione e polveri, resine, rischi di furto) per i documenti e i libri, anche preziosi, che la biblioteca custodisce (della noncuranza nei confronti del personale taccio, perché "meno ce ne sono, meno costano"); vagheggiamenti per l'utilizzo alternativo degli spazi  per belle attività ("bei pranzi" cito e non vorrei dover citar ma cito); proposta di chiusura della rete bibliotecaria medio novarese, premessa della chiusura di ogni rete bibliotecaria, perché come è possibile la catalogazione on line senza un sistema coerentemente inserito in una rete regionale e nazionale?
Non è sogno, né incubo, ragazzi: è realtà. Di fronte alla realtà bisogna fare qualcosa. Che cosa? Mantenere ogni attività nell'ambito della legalità e denunciare; continuare a lavorare molto a servizio dei cittadini come da 35 anni si fa; non gettare né la spugna, né la sedia in testa alla mitraglia come verrebbe di fare; cercare di essere i migliori, senza preoccuparsi di essere capiti (d'altra parte avete mai visto un  asino mangiare un bignè o danzare sotto la luna al suono dei valzer di Chopin?); fare riferimento al proprio superiore diretto e basta: il municipio è lontano, in ogni senso.
Achille Marazza ebbe ad affermare, a un congresso sulle biblioteche italiane del primo dopoguerra (cito a memoria e un po' parafraso): "La storia ci ha donato biblioteche antiche ed illustri, ecclesiastiche o nobili aperte solo a studiosi e dotti. Ora occorrono le biblioteche per Renzo e Lucia, biblioteche decentrate, aperte a tutti, adatte alla formazione permanente, con ampio orario e personale disponibile e accogliente, con spazi dedicati a bambini e ragazzi, attente alle tradizioni locali." 
Marazza fondò dunque la Biblioteca Pubblica e Casa di Cultura che porta il suo nome. Attenendomi alla sua volontà, ai principi (modernissimi) che pose a fondamento dell'istituzione, al bene comune, all'intelligenza della ragione io lavoro.
 
 
@Eleonora Bellini

giovedì 10 dicembre 2015

Caterina e l'orso a zonzo per il mondo, di Christiane Pieper



Quale bambino non vorrebbe avere come guida e maestro un orso, un orso, grande e forte, allegro e bonario? Caterina è proprio fortunata, perché può andare a spasso per il mondo in compagnia di un grosso orso. Può seguirlo, ma, soprattutto, imitarlo. Eccoli dunque che passeggiano tra le case della città, sconfinano nei campi fino alle dune in vista del mare, corrono sul prato e strisciano nella sabbia e tante altre cose. Caterina è piccola, magra e ha due grandi orecchie. E' anche allegra, sorridente e curiosa, così che i lettori, grandi e piccoli, desiderano assomigliarle.
 
 
L'albo si presta ad essere letto ad alta voce anche ai piccolissimi e, soprattutto, ad essere animato, perché Caterina e il grosso orso a volte si rotolano, a volte saltano, altre semplicemente camminano. Poi svoltano a destra, poi a sinistra, scrutano attorno e si provano perfino a muoversi su tre e quattro gambe. Ma più di ogni altra cosa camminano a testa alta, in grande libertà, con lo sguardo rivolto ad ampi orizzonti.
 
Caterina e l'orso, a zonzo per il mondo di Christiane Pieper, Kalandraka 2015

sabato 28 novembre 2015

Preghiera per Černobyl', di Svetlana Aleksievič

"Cambiò il mondo. Cambiò il nemico. La morte ebbe facce nuove che non conoscevamo ancora. Non si vedeva la morte, non si toccava, non aveva odore. Mancavano persino le parole per raccontare della gente che aveva paura dell'acqua, della terra, dei fiori degli alberi. Perché niente di simile era accaduto prima. Le cose erano le stesse - i fiori avevano la solita forma, il solito odore - eppure potevano uccidere. Il mondo era il solito e non era più lo stesso" (p. 9)
Non è più lo stesso, il mondo, non è più lo stesso l'uomo. L'euforia della tecnica assassina, la fiducia nell'onnipotenza  e perfezione di marchingegni velenosi, la perdita del senso della misura, l'ignoranza della condizione umana sulla terra - l'uomo, piccolo essere tanto fragile quanto tracotante - hanno prodotto quella Černobyl',  e le tante piccole e grandi Černobyl' che sono seguite: da Fukushima all'aria irrespirabile di Pechino e di Città del Messico alla Samarco brasiliana; da Seveso ai fanghi rossi di Scarlino e all'ILVA di Taranto per stare nel nostro piccolo. Uomini che uccidono il genere umano. Perché? Per il profitto, per la ragion di stato, per cieca e crudele tracotanza?
In questo libro che tutti devono leggere - e non solo perché l'autrice è stata insignita del premio Nobel per la Letteratura 2015 - sono raccolte testimonianze da Černobyl'. Raccontano le persone che hanno vissuto il disastro e nelle loro storie si sentono ancora il dolore e l'orrore, l'incredulità e la rassegnazione. Ecco, proprio la rassegnazione pare essere il vero nemico dei cittadini del mondo di oggi: considerare "naturali" le catastrofi dovute all'uso di tecnologie e sostanze nocive conduce, tra l'altro, all'accettazione passiva di "nuove" malattie, come i tumori, la cui origine è ambientale. A Černobyl' i porcospini ora nascono senza aculei, così come bambini sono nati senza arti o con i tessuti già sfatti e ustionati o privi dei naturali orifizi del corpo. Si può accettarlo? Si può perdonare? Certo che no. Ma la protesta deve salire, le abitudini di vita devono cambiare, all'insano culto del profitto unito al disprezzo per le creature umane bisogna sbattere la porta in faccia. Per questo la rassegnazione è la scelta peggiore. 

Svetlana Aleksievič, Preghiera per Černobyl', Edizioni E/O 2002. Traduzione dal russo di Sergio Rapetti

domenica 8 novembre 2015

Dio e il suo destino, di Vito Mancuso

 
 
Sarà in libreria il 12 novembre Dio e il suo destino di Vito Mancuso, ma ieri a Borgomanero, nel corso di un incontro organizzato dalla Fondazione Marazza se ne è parlato in anteprima alla presenza dell'autore, introdotto dal novarese Giannino Piana.
Apriamo il libro e leggiamo due dediche: "A chi ha perso Dio a causa di Deus" e "alla memoria di don Andrea Gallo che credeva in un Dio antifascista". Sono dediche e già vi è presente l'assunto del volume (463 pagine), che si apre con un breve capitolo intitolato "Personaggi principali". Chi sono costoro? Dio, la forza buona dell'essere; Deus, l'archetipo del divino nella mentalità occidentale, forza e onnipotenza; il Destino, svelamento della verità delle cose; Trinitas, la "più veritiera e la più attuale interpretazione di Dio, la prospettiva su cui camminare per rendere ragione della verità globale dell'essere e dell'esperienza umana" (pp. 13, 14).
La tesi che l'autore sostiene è che, se l'immagine di Dio non sarà liberata dalle prerogative del Deus, il suo declino, già iniziato nella mente e nel cuore degli esseri umani, anche tra molti di quelli "di buona volontà", sarà definitivo. La lontananza di questa concezione di Dio - Deus dal mondo e dall'esperienza di coloro che vivono su questa terra verrà percepita come incolmabile.
Possono la riflessione teologica - e la pratica di fede - subire questo scacco? Certo che no, afferma Mancuso, perché "in gioco non c'è l'esistenza di un essere misterioso là in alto, ma il senso dell'essere qui in basso". Il Dio del quale parlano la Chiesa cattolica e le altre religioni del mondo, tornerà ad essere orizzonte e luce della fede degli umani, solo se verrà definito (e comunicato) come speranza sotto forma di pensiero, idea del bene e libertà autentica e profonda.
"Il risultato a cui sono giunto è che il vero nemico dell'idea di Dio in Occidente non è l'ateismo, non è il relativismo, non è nessuna delle minacce di cui parlano spesso gli uomini di Chiesa: è invece l'idea di Dio prodotta nei secoli dal potere religioso e depositata nella cosiddetta dottrina, a protezione della quale vennero collocati una serie di fossati e fili spinati detti anatemi e scomuniche, senza esitare a togliere violentemente la vita a tutti coloro che la contestavano e che non potevano essere vinti con la limpida verità delle argomentazioni" (p. 29).
Il saggio è variegato e profondo, si muove tra teologia, filosofia, letteratura, scienza e conta dieci capitoli (Dichiarazione d'intenti e descrizione del protagonista; Perché ne abbiamo ancora bisogno; Deus: la sua identità nella Bibbia ebraica; Il Nuovo Testamento e il suo Dio; Sorgere dell'eresia; Il Dio della dottrina; L'aporia manifesta; Elementi per una nuova immagine di Dio; Questioni di stile). Conclude la trattazione una ricca e preziosa "guida bibliografica".
Un libro che sicuramente si farà leggere (e rileggere), che farà scoprire, riflettere, sperare, come si addice a tutte le opere autentiche, appassionate e per nulla effimere.
 
 
Vito Mancuso, Dio e il suo destino, Garzanti 2015

sabato 7 novembre 2015

La vita felice, di Plutarco

"Io ammiro Diogene per aver detto al suo ospite a Sparta, vedendolo indaffarato a prepararsi una festa:  - Un uomo onesto non considera tutti i giorni una festa? -.  E una festa proprio splendida se siamo saggi". (p. 60)
Quando e perché una vita possa dirsi felice è una domanda che molti in ogni epoca si sono posti. E se, per gli antichi, la felicità e la bontà di una vita potevano definirsi solo al suo termine nella somma dei giorni, degli anni e delle azioni, la velocità insana che spinge e comprime l'oggi in questi nostri giorni può sviare, anzi: sicuramente svia, dal comprendere in che cosa consista la vita felice.
Leggere o rileggere questa riproposta delle riflessioni di Plutarco nella bella e "moderna" traduzione di Carlo Carena, può favorire meditazioni e domande, non tanto sulla definizione di felicità, ma piuttosto sui tanti sviamenti dall'essenziale, dal bello e dal buono in cui cade chi non affronta la vita con riflessione e misura.
Così scorriamo queste pagine con curiosità e leggerezza insieme, capitolo dopo capitolo: La fortuna; Non si può avere una vita piacevole seguendo Epicuro; La tranquillità dell'animo; Norme per mantenersi in buona salute; Norme per il matrimonio; Il banchetto dei Sette Sapienti; Venticinque detti di re, di generali e di Spartani.
"Discrezione e armonia nelle passioni, nella soddisfazione dei sensi, nei rapporti sociali; culto della sapienza e uso dell'esperienza; connessione di attività mentali e materiali, di godimento della buona sorte e di solerzia per procurarsela, dei piaceri intellettuali e cum grano salis, di quelli corporei", così sintetizza Carena in un passo dell'introduzione la visione del mondo di Plutarco.
 
 
Nato a Cheronea in Beozia (Grecia centrale) nel 49 d.C., Plutarco studiò ad Atene scienze e retorica. Intrecciò amicizie e relazioni a Roma e ricoprì alcune cariche pubbliche in Grecia ai tempi dell'impero di Adriano. Fu anche sacerdote a Delfi e legato al culto di Apollo. Ebbe moglie e cinque figli.
 
Plutarco, La vita felice. A cura di Carlo Carena, Einaudi 2014

mercoledì 4 novembre 2015

FERMENTI rivista, n. 243


                                  
La rivista "Fermenti", periodico  a carattere culturale, informativo, d'attualità e costume, nacque a Roma nel 1971, per iniziativa di Velio Carratoni. Negli anni la rivista ha assunto il peso e lo spessore di un vero e proprio volume, inteso non solo nei suoi aspetti materiali (numero di pagine, ben 358; immagini) ma soprattutto nei contenuti che offrono occasioni di vero approfondimento e di multiforme interesse.
Questo ultimo numero, nelle diverse sezioni che vanno dalla critica letteraria alla saggistica generale, dalla poesia, alla narrativa, all'arte, coinvolge numerosi studiosi:
G. Alvino, M.P. Argentieri, G. Baldaccini, E. Bellini, R. Bernini, C. Caligari, D. Cara, M. Carlino, V. Carratoni, G. Colletti, B. Conte, A. Contiliano, A. De Rose, G. De Santi, S. Di Marco, D. Di Poce, D. Di Stasi, G. Di Stefano, M.L. Ercolani, F. Ermini, G. Fontana, G. Forti, M. Furia, B. Giacopello, R. Giannini, V. Guarracino, M. Lenti, C. Mancuso, R. Marconi, F. Medaglia, F. Muzzioli, M. Nocera, M. Palladini, G. Panella, R. Pennisi, R. Piazza, M. Piazzolla, M. Pieri, D. Pietrini, I. Pozzoni, C. Sangiglio, L. Succhiarelli, M.A. Tavernese, V. Verzieri, E. Villani, K. Willman.
Un ricco inserto in appendice si occupa, come sempre, della Fondazione Piazzolla.
La rivista è disponibile anche in formato digitale.

CAPOVERSO. Numero speciale dedicato a Pasolini


CAPOVERSO. Rivista di scritture poetiche che si pubblica a Cosenza per le Edizioni Orizzonti Meridionali dedica il suo più recente numero (29, gennaio - giugno 2015) a Pier Paolo Pasolini. "Omaggio a Pasolini" raccoglie diciotto saggi sull'opera dello scrittore assassinato quarant'anni fa e sei liriche in suo onore: un numero monografico interessante e, forse, indispensabile nella presente ricorrenza.
Otto testi (Bellini, Bianchi, Cipparrone, Civitareale, Corbo, Guarracino, Panella, Papi) si occupano della poesia; tre della narrativa (Bafaro, Gaudio, Sangiuliano). A questi seguono contributi sulla saggistica e il cinema (Gaccione, Leporace, Villa, Zaccuri), dopo i quali leggiamo testimonianze di Bilotti, Ferretti e Macrì. Le poesie dedicate sono di Bettarini, Desideri, Gordano, Maleti, Petrungaro, Piazza.
"Senza Pasolini" è il titolo dell'appassionata introduzione di Franco Dionesalvi, che scrive, tra l'altro: "Con lui se n'è andato un modo diverso di intendere e praticare il ruolo dell'intellettuale: non un professionista dell'editoria o delle lettere, ma un "sacerdote", una persona che si vota all'elaborazione teorica, alla percezione del "senso", e a queste informa tutte le scelte della sua vita. Inseguendo un'idea di coerenza assoluta , e sposando quelle scelte costi quel che costi, fino alle estreme conseguenze".
 

lunedì 28 settembre 2015

Parlami, dimmi qualcosa, di Manlio Cancogni

"Inutile tentare di introdurre qui dentro un principio di razionalità Questa è una casa di donne, qui manca l'uomo. Il vecchio non era un uomo, era un nume. Mio suocero è l'ultimo gentiluomo rimasto sulla terra."
Storia di un matrimonio e di un amore durato a lungo nella vita del protagonista. Sara, la moglie, è una giovane taciturna, svagata, che si sente a suo agio solo lontano dalla città, una Firenze silente, solo intravista nella narrazione, a Ripa, nella casa degli avi. Qui crescono, moderatamente viziate, le due figliolette del protagonista, straniero in questa femminile congrega nella quale le intese sorgono naturali e spontanee e non necessitano di lunghi discorsi.
Sognatore e sfaticato, egli si rifugia a Parigi con la giovane amante Margherita e con il pretesto di poter meglio scrivere, in quell'ambiente stimolante e vario, il libro della sua vita. Non lo porterà a termine, naturalmente, e tornerà in famiglia, accanto a Sara, sempre taciturna e tutta dedita ai lavori domestici. Come scuoterla, come tornare al riso dei giorni d'amore di gioventù?
Parlami, dimmi qualcosa è uno dei romanzi più significativi di Cancogni, impietoso nella sua discesa profonda nel quotidiano e nei tempi lunghi dei rapporti di coppia, disincantato nel descrivere la ricerca di quell'intesa completa e serena, forse inarrivabile, che potremmo definire felicità.
 
Manlio Cancogni, Parlami, dimmi qualcosa, Elliot 2010
 

giovedì 3 settembre 2015

Un infinito numero, di Sebastiano Vassalli


Timodemo, nato a Nauplia, in Grecia, figlio di una prostituta, è istruito affinché divenga grammatico. Sul mercato di Roma, infatti, gli schiavi greci colti sono molto ricercati e il giovane viene acquistato nientemeno che da Virgilio per divenirne il segretario. Nella casa del poeta Timodemo vede per la prima volta una biblioteca e scopre la gioia della lettura: "... tutt'attorno alle pareti, dal pavimento al soffitto, c'erano dei ripiani di legno come in una bottega di panettiere, e al posto delle pagnotte c'erano i rotoli di papiro allineati in bell'ordine: i greci da una parte, i latini dall'altra e i poeti nel mezzo, io provai una grande emozione, come se fossi stato presentato agli autori di tutti quei libri". Incontra poi gli amici di Virgilio, Mecenate e Ottaviano Augusto. La vicinanza e la comunione di vita gli rivelano difetti e manie dei grandi, mentre di Virgilio gli resta indelebile il sentimento dell'amicizia e di gratitudine per la libertà che il poeta gli dona. 
Insieme a Virgilio e Mecenate Timodemo intraprende un viaggio nelle terre degli Etruschi, alla ricerca delle origini di Roma e anche dei misteri di quel popolo (da cui trae origine lo stesso Mecenate) che conobbe la scrittura e tuttavia non lasciò nulla di scritto, fatta eccezione per "i nomi dei suoi morti, e qualche vaga indicazione sul modo di onorare gli dei e di prevedere il futuro. Sono riusciti a esistere, quei matti, e anzi a prosperare ed essere felici quasi mille anni, senza sentire il bisogno di renderci partecipi dei loro pensieri e senza mettersi in posa per noi in quella foto di gruppo che è la storia!".  
Aisna, sacerdote e incarnazione del dio etrusco Velthune, rivela ai viaggiatori l'esistenza di un'equazione fra scrittura e morte: la scrittura è, un'invenzione di Mania, la divinità delle ombre, che, tracciando nel creato i nomi di piante, animali e uomini, creò con essi la morte. I nomi esistono nel tempo, la scrittura li cristallizza, bloccando così il flusso della vita e del tempo che generano l'infinito numero dei viventi e l'avvicendarsi delle esistenze. 
Al ritorno a Roma i tre viaggiatori andranno incontro a destini diversi: Mecenate vedrà tramontare la sua stella e si ritirerà dalla scena politica; Virgilio scriverà il poema sulle origini di Roma, l'Eneide, ma farà di tutto per impedirne la pubblicazione (il "pio" Enea e i suoi si macchiarono di massacri e stupri di inaudita crudeltà: come tacerlo, come narrare il contrario?); il grammatico Timodemo attraverso l'acquisizione di una profonda saggezza supererà le barriere del tempo e dello spazio giungendo fino alle soglie del Duemila, per narrare a Vassalli la sua storia, ricca di dettagli e osservazioni poco note ai più sulla nostra penisola in epoca antica.



Sebastiano Vassalli, Un infinito numero. Virgilio e Mecenate nel paese dei Rasna, Einaudi 1999  

domenica 9 agosto 2015

MARAMEO!, di Eleonora Bellini

Marameo è un atto unico scritto nel 2012 per la Compagnia Teatro dei Passi. Che c'è in Marameo, rappresentato diverse volte nel Piemonte Occidentale e Orientale con le sue propaggini lombarde? C'è l'amore per il grande teatro, ci sono i brani immortali che ritemprano la nostra umanità e i nostri pensieri e c'è una Plastinetta, ragazza d'apparenza e illusione, grazioso fuoco fatuo perduto nell'immenso mondo della superficialità e della mercificazione. Dialoga la Plastinetta con suo padre, vecchio attore dal grandi fasti passati, dal presente (forse) umiliato.
Marameo è stato rappresentato venerdì 7 agosto anche a Borgomanero, sua patria, nell'ambito della rassegna "Venerdì della Marazza": un successo anche per gli attori, il maestro Guido Tonetti e la giovane Eleonora Pizzocheri.


Un assaggio del testo, che sarà presto disponibile in pdf su academia.edu:
[...]
Ragazza: la plastinetta!
Uomo: la plastinetta? Che cosa sarebbe la plastinetta?
Ragazza: eh, quello della plastinetta è il ruolo del futuro. La plastinetta è colei che si modella e, modellandosi, plasma coloro con cui viene a contatto. La plastinetta è una figura flessibile e morbida, estroversa e aperta, intrigante e promettente, insomma è... la plastinetta! 
Uomo: modellandosi plasma, ma come si modella? Che cosa plasma? 
Ragazza: modella se stessa e plasma i suoi partners, o le sue partners, anche quelle le plasma. E' un' azione scenica, no? 
Uomo: D'accordo, ma che cosa reciterai? Di chi sono i testi? Devi ballare per caso? Tu sei bravissima con la danza moderna, sei notevole quando balli. In un gruppo ben affiatato emergerai, ti noteranno di sicuro come ballerina. Per questo è importante sapere chi sono gli altri interpreti e che ruoli hanno. 
Ragazza: macché ballare, macché recitare; la danza ormai la fan tutte e recitare è superato da un pezzo. Le parole non servono. Servono i corpi e la plastinetta è appunto una ragazza plastica, flessibile, disinibita che si esprime con il corpo. Con il corpo e basta, capito? 
Uomo: Allora danza, se no come fa ad esprimersi senza parole? La plastinetta danza, ho capito bene? O forse mima?
[...]

(C) Eleonora Bellini

sabato 25 luglio 2015

LUPO (se gender dev'essere, che gender sia)


Qui lupo nascosto, lupo di pelo,
spia dalla tana una fetta di cielo
là lupo di grotta, lupo di monte, 
beve e si lava nell’acqua di fonte 

Cammina cammina il vecchio lupo

broncio brusco un poco cupo
cammina cammina finché arriva
ad un ruscello verde riva
del pascolo ricco di petali e fiori.

Lupo si sdraia, annusa i colori

annusa l’aria, odora i velli
di mamma pecora, dei teneri agnelli.
Pensa e riflette: è ora di andare,
torno alla spiaggia, torno al mio mare.

Lo ferma la pecora: amico lupo

che vaghi quassù solo e sperduto
ai miei agnellini che han fame di sonno
resta a narrare fiabe di nonno.

Ora ogni sera il lupo all’ovile,

timido l’occhio, la voce gentile
da un vecchio libro legge con stile.

Lupo di cuore, luce di fiamma
ogni sera accompagna alla nanna
i suoi agnellini dagli occhi di panna

Nanna di nonno, cuore capanna
.


 
Domande (spunti di "riflessione" per le sentinelle in piedi, sedute, semisdraiate e sdraiate et similes):


1. dov'è il padre degli agnelli?
2. e, soprattutto, chi è il padre degli agnelli?
3. qual è il sesso degli agnelli? due maschi/ due femmine/ un maschio e una femmina? 
4. gli agnelli hanno uno stesso padre o due padri diversi?
5. gli agnelli hanno forse anche un'altra madre (genitrice 2)?
6. a che titolo il lupo viene definito nonno (padre della pecora, padre del padre degli agnelli, padre della/e madre/i degli agnelli) ?
E chissà quante domande altre alcune menti contorte potranno aggiungere. 
Impossibile farsene una ragione.
Per l'altro versante della storia cliccare qui: ninna nanna per una pecorella
  
(C) Eleonora Bellini

lunedì 20 luglio 2015

La signora melograno, di Goli Taraghi


Goli Taraghi è delle maggiori scrittrici persiane contemporanee. Originaria di Teheran (1939), ha studiato negli Stati Uniti. Tornata in Iran, ha insegnato filosofia all'Università di Teheran. Si è trasferita in Francia, dove vive tuttora, nel 1979 dopo l’avvento al potere di Khomeini. 
L'esperienza dell'esilio e del viaggio sono i temi fondamentali dei suoi racconti, così come quelli del valore del passato e del ricordo, elementi della sua narrazione spesso autobiografica nella quale rivivono, non senza ironia e disincanto, le consuetudini delle classi agiate del suo Paese d'origine prima della rivoluzione islamica.
La signora melograno è una raccolta di racconti che ci trasportano tra Teheran e Parigi, città che, entrambe, ci appaiono qui ben diverse da quanto conosciamo della loro iconografia turistica tradizionale. E come potrebbe essere altrimenti?  Luogo privilegiato della narrazione è anche il luogo del viaggio intercontinentale, l'aeroporto. Qui si svolge la vicenda narrata nel primo racconto, che dà il titolo al libro: la signora Melograno è un'anziana campagnola, smarrita e confusa nel grande scalo aereo della capitale. Ha ottantatré anni e sale per la prima volta su un aereo per andare a trovare i figli, esuli in Svezia. Così racconta della sua infanzia e del suo strano nome alla compagna di viaggio che si trova, suo malgrado, ad assisterla: "Sono cresciuta all'ombra degli alberi di melograno. Non avevo genitori, ho bevuto succo di melagrana al posto del latte. Tiravo giù un ramo e schiacciavo una mela per berne il succo. Come se fosse il seno di mia madre". La signora Melograno diverrà per il lettore che apprezza Goli Taraghi un personaggio indimenticabile.
Ma ancora di più sarà difficile scordare Madame Lupo, l'inquilina del piano di sotto, capace di incutere il terrore nella giovane madre iraniana esule a Parigi con i suoi due bambini: "La vita degli esiliati, qui a Parigi, va di pari passo con mille ansie nascoste. Nutriamo un senso di colpa per essere arrivati dall'altra parte del confine, usurpando il posto dei nativi. [...] Noi, eredi di Ciro e di Dario [...] se siamo caduti in disgrazia e dei nostri antichi fasti non son rimaste che briciole, beh, è colpa vostra: di voi occidentali, di voi sfruttatori, cultori del denaro e delle apparenze. [...] La mia infelicità dipende dalla tipa del piano di sotto che si aggira nelle nostre esistenze caotiche come uno spirito infausto. Non abbiamo il coraggio di uscire, di ridere, di parlare". I diktat dell'inquilina del piano di sotto, la signora Lupo, sono duri, aggressivi, esasperanti e toccano ogni momento della vita quotidiana: vanno dalla proibizione di camminare con le scarpe a quella di uscire sul terrazzino, a quella di parlare ad alta voce o di ricevere ospiti. Ma chi è Madame Lupo? Una plenipotenziaria? L'amministratrice del condominio? La proprietaria dello stabile? Nulla di tutto questo. E solo una "povera pecora vestita da lupo", una donna che vive nell'indigenza di un quotidiano dagli orizzonti corti e meschini. Per sfogare la rabbia che cova sotto le ceneri del suo difficile vivere non trova di meglio che sfogarsi angariando chi è più debole di lei. 
Una storia esemplare, una storia amara d'ombra e rancore. Vi ricorda qualcosa?



Goli Taraghi, La signora melograno, trad. A Vanzan, Jaca Book 2014.

lunedì 13 luglio 2015

"Dannati et prohibiti in questa inclita città di Vinegia"

Nel 1549 ci cascò anche un umanista non da poco, monsignor Della Casa, che curò un Catalogo di diverse opere, compositioni et libri, li quali come eretici, sospetti, impii et scandalosi si dichiarano dannati et prohibiti in questa inclita città di Vinegia. L'elenco comprendeva 149 titoli (il numero 49, come vedremo più avanti, ha certo un significato speciale nella Serenissima) e riguardava principalmente opere tacciate di eresia. La proibizione finì con il non essere applicata per l'opposizione dei librai e dei tipografi. Otto anni dopo, il commissario Michele Ghisileri indirizzò all'inquisitore di Genova una missiva nella quale, a proposito delle proibizioni di libri notava: "Di prohibire Orlando, Orlandino, cento novelle et simili altri libri più presto daressemo da ridere ch'altrimente, perché simili libri non si leggono come cose a qual si habbi da credere ma come fabule, et come si legono ancor moltri libri de' gentili come Luciano, Lucretio et altri simili".
Gran compagnia di dannati, quella, comprendente Ariosto, Boiardo, Folengo, forse Boccaccio. La proscrizione di libri considerati eretici o dannosi per la salute dell'anima in senso lato aveva una storia antica, essendo iniziata nel 325 con il Concilio di Nicea. Si perfezionò, per così dire, in epoca controriformista con l'istituzione nel 1559 dell' indice dei libri proibiti a cura del sant' Uffizio. Si trattava prevalentemente di opere di autori protestanti, ma vi trovarono posto anche Dante Alighieri (De monarchia), Machiavelli e Luciano di Samosata. L'indice rimase in vigore fino al 1965 e lungo gli anni e i secoli in cui durò vi furono inclusi, tra gli altri, Bacone e Balzac, Hugo e Defoe, Dumas, Flaubert e Zola; nonché, tra gli italiani, Alfieri e Beccaria, Galilei e Foscolo, Leopardi, Tommaseo e Rosmini. Solo qualche citazione facciamo, ovviamente, giusto per confermare che non vi furono inseriti solo i perfidissimi Marx, Voltaire e Giordano Bruno. Gran bella compagnia, vien da ripetere e da confermare.
Così, quando qualche settimana fa il sindaco di Venezia Brugnaro pensò bene di far stilare una lista di albi per l'infanzia da eliminare dalle serenissime scuole ed asili, il primo commento che mi salì alle labbra fu: "Accipicchia, che tempismo! Che modernità!". E il secondo "La storia ritorna, si ripete, s'involve. Che avesse ragione il vecchio Vico (Giovanbattista)?". E il terzo: "Non c'è mai limite al peggio".
Quindi, scorsa la lista, che potete leggere qui accanto, ed essendovi compreso anche un mio albo per piccoli, Ninna nanna per una pecorella, (Topipittori, con esemplari illustrazioni di Massimo Caccia), insieme a classici della letteratura per l'infanzia di nuovo eccomi ad esclamare (si licet parva...) : che bella compagnia!
E tuttavia l'azione del sindaco inquisitore è grave, per diversi motivi:
- dimostra una assoluta non conoscenza dei libri stigmatizzati,
- si arroga il potere di decidere che cosa i suoi concittadini, particolarmnete i più piccoli e indifesi, possano leggere e che cosa no, abusando del proprio potere e delle proprie prerogative istituzionali,
- evidenzia una assoluta ignoranza della psicologia infantile e dell'immaginario dell'infanzia.
La motivazione dell'esclusione di questi libri dalle istituzioni educative è quella che ne indica alcuni come libri "gender", cioè libri nei quali la distinzione dei ruoli maschile e femminile non sarebbe chiara, o addirittura è ambigua, non "normale" o perfino "contro natura". Anche qui l'ignoranza si rivela colossale: l'affermazione ignora, infatti, che l'antropologia ci insegna da sempre che concetti di natura, normalità, giusto e ingiusto, non sono assoluti, ma mediati da storia, civiltà, conoscenze, usi e costumi; ignora inoltre che la teoria "gender" è priva di fondamento scientifico ed è esclusivamente funzionale all'ambito del cattolicesimo più integralista e retrivo, un'invenzione contro l'uguaglianza e la tolleranza. In verità, poi, i titoli "gender" della lista sono solo tre e riguardano piccoli con due papà o due mamme, come ne esistono al mondo vivendo felici. Che cosa vorrebbero Brugnaro e i suoi sodali che si dicesse a questi bambini? Che le loro mamme e i loro papà sono "malati", malvagi, inaffidabili? Che la loro non è una "vera" famiglia? 
Maxima debetur puero reverentia, recita un antica massima di Giovenale: al bambino è dovuto il massimo rispetto. Quanto rispetto per il bambino sta nel provvedimento del Brugnaro? Evidentemente nessuno.
Quanto alla mia storia in rima che dire? Una pecorella si smarrisce, cerca il pastore, non lo trova, scende la notte e la paura l’assale. Vede luci brillare: non si tratta dell’ovile, ma di occhi di lupo. Mamma lupo e il suo bambino le si fanno incontro e l’accolgono, la nutrono, la portano a nanna con loro: accoglienza, sicurezza, abbraccio finale di un immenso cielo di stelle per i piccoli che si accingono ad andare a dormire. Qual è il pericolo nascosto in questa storia, sindaco? Forse che i lupi (neri) non sbranano la pecorella (bianca)?
Ma anche la pecorella, nella notte della sua paura, diventa nera. Questo, perché, caro sindaco, i confini tra noi e gli altri, tra il bianco e il nero, il grande e il piccolo, non sono così netti e taglienti come Lei vorrebbe. L’uguaglianza e l’umanità sono più profonde del colore, più salde delle apparenze.
O forse è condannabile il fatto che nella storia non appaiono i genitori della pecorella e nemmeno il padre del lupacchiotto? Anche Pinocchio, però, non aveva la mamma; perché non sta nella lista? Forse i Suoi consulenti non l'hanno letto? Forse conoscono solo la versione disneyana della storia del nostro diseredato e "disturbato" burattino?
Perdoni, ma non sono capace di penetrare nelle contorsioni del  pensiero, Suo o di chi ha redatto l'elenco.
In questi giorni, le reazioni da parte di bibliotecari, librai, insegnanti, scrittori, editori ed educatori, nonché le critiche puntuali e approfondite al provvedimento del primo cittadino veneziano, sono state numerose e autorevoli. E' facile trovarle sul web, meditarle, condividerle. E' anche facile trovare nelle librerie e nelle biblioteche i 49 libri della lista e leggerli. Non aggiungerò dunque nulla su questo.
Concludo riportando l’osservazione dello psicologo Diego Fernando Marin quando s'imbatte, in un centro commerciale, nell’edizione spagnola del mio piccolo albo:
Fue amor a primera vista. En primer lugar porque no se trataba de una nueva recopilación de canciones infantiles (mis preferidas creo que ya las he reseñado), si no de un sencillo poema para leer antes de dormir. Lo otro que me atrajo fue que no había un exceso de rojos, amarillos y colores primarios violentos y explosivos. En lugar de ellos habían tonalidades azules y ocres, propias del anochecer, delineadas con un negro trazo firme.  En tercer lugar, porque el texto deja a los lobo bien parados. Elizabeth rebate y discute este punto. No es un libro realista me dice entre risas, pero la verdad no me interesa que sea un libro realista. La literatura infantil está plagada de libros poco realistas. No hay un gato con botas, no hay siete enanos ni dragones. Eso no hace a ese tipo de personajes menos reales para los lectores.
Así que este pequeño volumen que se dedica a versificar sobre una pobre ovejita perdida en el bosque a quien termina acogiendo una loba, es una sencilla nana para antes de ir a dormir, que a pesar de su simplicidad no escatima el elemento literario. Son trece páginas dobles que se hallan plenas de la presencia de la literatura, bella y cautivante literatura. Un bebé, estoy seguro, agradecerá un libro como este. Tutta la recensione qui: Canción de cuna para una ovejita

(C) Eleonora Bellini

domenica 14 giugno 2015

La tripla vita di Michele Sparacino, di Andrea Camilleri

Michele Sparacino nacque a Vigàta nella notte tra il 3 e il 4 di gennaio del 1898 nell'oscura dimora di una poverissima famiglia. Come fu che divenne brigante e agitatore di folle? E lo divenne veramente o la sua condanna fu solo il frutto della fantasia di un giornalista pigro e bugiardo, Liborio Sparuto? 
In questo racconto di Andrea Camilleri, pubblicato in una bella edizione tascabile da Rizzoli nel 2009 si legge la storia di un giovane che dire sfortunato è dir poco: sempre al momento sbagliato nel posto sbagliato, Michele è impotente vittima del destino, tra la Sicilia delle proteste dei "briganti" in epoca Umbertina e il Carso della prima guerra mondiale. Una storia breve, argutamente narrata, nella tradizione di quell'epopea degli umili - rassegnata e disperata - che fu inaugurata in Sicilia da Capuana, Verga, Pirandello e prosegue ancora.
La seconda parte del libro offre una approfondita intervista di Francesco Piccolo ad Andrea Camilleri, nella quale lo scrittore svela non solo i modi e i tempi della sua scrittura ma anche le sue opinioni sull'attualità, le persone, le cose e i luoghi della nostra penisola.
 
 
Immagine di copertina: particolare da "La strada" di Balthus, 1933. Nel piatto e nell'antiporta interni riproduzione completa dell'opera

lunedì 18 maggio 2015

Se Venezia muore, di Salvatore Settis

Nel pomeriggio di domenica 17 maggio Salvatore Settis ha tenuto una mirabile conferenza al Salone del libro di Torino. Prendendo spunto dal suo più recente libro Se Venezia muore ha parlato, avvalendosi anche della proiezione di diapositive, della "morte" delle città storiche italiane così come le conosciamo (o le conoscevamo), del fenomeno delle megalopoli come agglomerati umani infelici e disumani nei quali il divario tra pochi ricchi e molti poveri si evidenzia nella struttura e nella suddivisione delle zone urbane in modo assoluto e crudele; delle nostre colpe per aver assecondato tale modernità male intesa. La proliferazione dei grattacieli, per fare un esempio, ha sostenuto Settis, si rifà alla "modernità" di un secolo fa.

Il benvenuto di Ernesto Ferrero a Salvatore Settis

Il libro, pubblicato nella collana "Vele" di Einaudi, riprende la conferenza tenuta a Venezia dall'autore nel novembre 2012, nell'ambito delle celebrazioni organizzate per i 100 anni di Morte a Venezia di Thomas Mann. Non si tratta tuttavia di uno studio sulla sola Venezia, ma di un "ragionamento universale" sulla storia delle città e sul loro attuale snaturamento, del quale Venezia è un caso emblematico. Le città muoiono, esordisce l'autore, in tre modi: quando un nemico esterno le rade al suolo, quando un popolo "barbaro" vi si insedia con la forza e quando i suoi abitanti perdono la memoria, divenendo stranieri a se stessi e dimenticando la propria dignità.
"Ogni città è viva narrazione della propria storia, ma anche volto e traduzione in pietra del popolo che la abita, la conserva e la trasforma. La città e il suo popolo sono una cosa sola, un solo nodo lega l'esperienza dei viventi e la memoria delle cose. Ma qual è il popolo di Venezia?" si chiede Settis. La città ha subito una fortissima riduzione del numero degli abitanti (statistiche a pagina 10), mentre sono lievitate le seconde case: "Domina ormai la città una monocultura del turismo che esilia i nativi e lega la sopravvivenza di chi resta e della città stessa quasi solo alla volontà di servire: di null'altro sembra più capace Venezia..."
La città ovunque nel mondo ha subito nell'ultimo secolo trasformazioni profonde, evolvendo verso la megalopoli, immenso formicaio umano in cui moltissimi  si sono trasferiti sperando in un miglioramento delle proprie condizioni di vita e in cui moltissimi semplicemente sopravvivono nella più oscura povertà. Nella megalopoli "lo spazio sociale è asservito ai processi di produzione" ed essa "risponde ad un progetto di massimo sfruttamento del singolo in funzione della produttività dell'insieme" (pag. 19); un simbolo di questo processo è Chongqing, nella Cina Centrale, che dai 600.000 abitanti del 1930 è passata ai 32 milioni di abitanti odierni; il suo profilo, apparsoci più volte nelle slides, è quello di una grigia "foresta urbana" di decine di grattacieli.
Un capitolo del libro è dedicato proprio alla "Retorica dei grattacieli", esemplificata dai casi di alcune città italiane. Citiamo Milano, dove il punto più alto di altezza della città, quello della madonnina del duomo, è stato violato con "l'orpello di grattacieli" da cui la città è stata infestata con il pretesto dell'EXPO: questa scelta edilizia "come il vestito della domenica del villano inurbato nella commedia di un tempo [...] traveste l'insicurezza, occulta la cattiva coscienza".  Porta con sé corruzione e sopraffazione. E' inutile. La popolazione di Milano è infatti significativamente diminuita negli ultimi quarant'anni (pagg. 29, 30), non necessitano dunque in città "densificazioni verticali".

Venezia nel "Civitates Orbis terrarum" del 1572 (autore Bolognino Zaltieri, 1565), al Museo Heritage
La Venezia duplicata e triplicata qua e là nel mondo (Las Vegas, Macao, Dubai) ci conduce alla constatazione del fatto che viviamo in un mondo in cui il centro della comunità è il centro commerciale, il luna park, la fabbrica del "falso" divertimento. Il luogo comune vale se investito di valore economico, se rende come merce.
La città, nella sua nascita e nella sua storia, è invece il luogo del dialogo e della comunità, della politica, del confronto e della democrazia. E' storia vivente e palpitante. Come invertire la rotta e restituire a Venezia e alle città storiche la propria dignità e la propria unicità?  "Se pensiamo Venezia come paradigma della città storica, anche la sua bellezza può diventare un argomento. La bellezza non è una merce, ma un patrimonio spirituale. [...] Pensare la città storica vuol dire pensare la comunità umana, il diritto al lavoro e il diritto alla città. [...] Perché se Venezia muore non sarà solo Venezia a morire: morrà l'idea stessa di città, la forma della città come aperto e vario spazio di vita sociale, come creazione di civiltà, come impegno e promessa di democrazia" (pag. 154).
La cura della città coincide dunque con la cura del popolo che vi abita, con il riconoscimento della sua dignità di essere (e di essere riconosciuto) tale a pieno titolo. 
Un libro, denso, illuminante, profondo. E anche appassionato. Da leggere e da meditare.
Salvatore Settis, Se Venezia muore, Einaudi 2014.

lunedì 4 maggio 2015

ριζώματα radici, di Eleonora Bellini. Una recensione e un link

La recensione di Angela Costanzo, su Capoverso n. 2/2014

ριζώματα radici è stato stampato in edizione limitata e numerata in occasione della mostra d'arte, letteratura, musica Elements di Mimesis, tenutasi a Belgirate (VB) il 3 e 4 maggio 2014, un anno fa.

Le poesie, sei per ciascuno dei quattro elementi classici dell'antica filosofia della natura, si possono leggere integralmente cliccando su Academia.edu 




In anteprima ecco due liriche dalle sezioni Fuoco e Aria


Incendio

L'incendio della macchia su in collina
fa paura come ai primitivi l'ira cieca
del più crudele dio. Ma i vigili del fuoco
accorsi in stuolo raccontano che incauto
un giovane gruppo di boy scout
dimenticò di spegnere le braci della cena.
Si estingue così sotto la vampa d'acqua
l'ennesimo sogno metafisico.



Pappo  

E' quasi estate e ai bordi della strada
bianchi soffioni dondolano il capo.
Il bimbo che li vede
ne raccoglie un mazzo.
Corre via il bimbo con il braccio teso
e lo segue una scia di bianche ali
che ondeggiano nell'aria strette ai semi.
Sciamano ovunque,
cercano brandelli di terra
negli anfratti delle pietre e del cemento.
Leggeri volano e sono
di loro leggerezza assai fecondi


© Eleonora Bellini