mercoledì 30 dicembre 2009

La notte efferata

Così, se la gente non facesse tante storie con il Natale, ci sarebbero meno tragedie. E' delusa, la gente, per forza. E questo scatena dei drammi. Solo in ufficio, Adamsberg scarabocchiava (...) Era il 24 dicembre, una sera speciale, tutti gli altri erano fuori. Si accingevano a festeggiare l'entrata in scena dell'inverno. Alcuni non se la sarebbero persa per nulla al mondo, i più non erano riusciti a sottrarsi. Per Jean-Baptiste Adamsberg era diverso: temeva il Natale e si teneva pronto. Natale e la sua sfilza di incidenti. Natale e la sua legione di drammi. Natale, la notte efferata. (...) Si alzò lentamente e andò ad appoggiare la fronte contro il vetro appannato. Fuori, ghirlande di lampadine gettavano brevi lampi sui corpi dei barboni, congelati, rintanati negli angoli. Tentò di calcolare quanti soldi si fossero polverizzati così, per tre settimane, nel cielo di Parigi, senza che una sola moneta finisse in tasca ai vagabondi. Natale, la notte della condivisione. (pag. 51)
La notte efferata è uno dei tre racconti di Scorre la Senna, di Fred Vargas, Einaudi Editore 2009.

sabato 26 dicembre 2009

L'étoile, di Edmond Rostand

Ils perdirent l'Etoile, un soir; pourquoi perd-on
L'Etoile ? Pour l'avoir parfois trop regardée.
Les deux rois blancs étant des savants de Chaldée,
Tracèrent sur le sol des cercles au bâton.

Ils firent des calculs, grattèrent leur menton.
Mais l'étoile avait fui, comme fuit une idée.
Et ces hommes dont l'âme eut soif d'être guidée
Pleurèrent, en dressant des tentes de coton.

Mais le pauvre Roi noir, méprisé des deux autres
Se dit : " Pensons aux soifs qui ne sont pas les nôtres,
Il faut donner quand même à boire aux animaux. "

Et, tandis qu'il tenait son seau par son anse,
Dans l'humble rond de ciel où buvaient les chameaux
Il vit l'Etoile d'or, qui dansait en silence.


***

La stella
Perdettero la Stella, una sera. Perché si perde
la Stella ? Forse per averla troppo guardata.
I due re bianchi, che erano dotti di Caldea,
tracciarono cerchi per terra col compasso.

Fecero calcoli, si grattarono il mento.
Ma la stella era fuggita, come fugge un'idea.
E quegli uomini, anime assetate di una guida,
piansero piantando tende di cotone.

Ma il povero Re nero, dagli altri disprezzato,
si disse: "Pensiamo alla sete che non è nostra,
bisogna almeno dar da bere gli animali. "
E mentre reggeva il secchio per il manico
nell'umile cerchio di cielo in cui bevevano i cammelli
vide la Stella d'oro, che in silenzio danzava.

(Traduzione di Eleonora Bellini)


lunedì 14 dicembre 2009

Una poesia di Natale per i bambini

Poesia sulla carta da pacco

Pensate per Natale
a qualcosa di speciale?
Prendete la scatola delle matite,
ma che siano bene appuntite,
un foglio di carta marrone
(la carta da pacco, quella
che ha lo stesso colore del sacco
dei doni di Babbo Natale,
se no il gioco non vale)
e poi sulla carta tracciate
strofe e rime colorate,
versi allegri e buoni
per avvolgere i doni.
Per la mamma sul pacchetto
scrivete la poesia del bacetto
della buonanotte, con tante scuse
per le sue belle tazzine rotte.
Sul regalo di papà
la filastrocca del gol che fa
la sua squadra del cuore,
e anche un rombo di motore
per tornare a casa prima la sera
a raccontarvi una storia vera.
Per avvolgere il dono di Piero,
la storia in versi dell'uomo nero
(che non esiste, è tutta una finta
questa fandonia di fosca tinta,
ed è certo che non verrà,
questa è la pura verità).
Sopra il pacchetto di zia Rita
ci sarà un grande via vai di dita
a significare la velocità
con cui un maglione sferruzza e fa.
Sopra il pacchetto di nonno Michele
disegnate api d'oro ed un vaso di miele
per combattere quella sua tosse...
E contro il freddo pantofole rosse
saranno il dono per nonna Pia,
in carta d'argento con poesia.
Se poi di regali ancora ne avete
continuate le rime finché stanchi non siete.

da "Una scatola piena di treni, margherite, triangoli" di Eleonora Bellini

giovedì 26 novembre 2009

Il canto del diavolo di Walter Siti

Un libro da leggere. Siti racconta il suo soggiorno di un mese negli Emirati Arabi, in particolare a Dubai: "Il canto del diavolo", opera a metà tra il reportage giornalistico e il saggio, si legge come un romanzo. L'autore ha visitato la Dubai della ricchezza sfrenata e anche quella degli immigrati addetti ai più umili lavori, degli studenti, dei giovani già sviati e corrotti dai miti dell'Occidente e di quelli cullati dall'illusione di un sicuro riscatto nel futuro.
Qualche citazione per esemplificare:
" Dubai sta vendendo soprattutto promesse, quello che non c'è: Perfino nelle mappe, nelle guide turistiche, molte zone sono indicate con la sigla u.c., under construction; stranamente, invece che produrre insoddisfazione o ironia, questa incompiutezza genera fascino - perché quel che i turisti vengono ad ammirare qui non sono i monumenti ma la fede nell'onnipotenza del denaro" (pag. 84,85).
"La prima tappa è a Dubai Marina, un comparto di residenze e uffici eretto in due anni attorno a un lago artificiale, con gli yacht già parcheggiati davanti ai primi grattacieli; il lago è scarso d'acqua, un limo grigiastro ricopre le sponde, devono esserci difetti di impermeabilizzazione. Tutto è sorto così in furia che spesso non si sono adottate le misure più elementari; nella Palma ad esempio non hanno aspettato che la sabbia si assestasse, sicché le ville rischiano di sprofondare" (pag. 79).
"Avete perso la maestà e il silenzio, in cambio di cosa? Questo è il deserto che ha dato agli uomini l'idea che Dio fosse uno solo, e ora vi perdete anche questo: ma sì, vendetevi all'entertainement, il consorzio umano è la sola cosa che vi meritate. Alla fine forse hanno ragione loro: l'Assoluto ormai annoia e se si vuole vivere in un flusso continuo di relazioni bisogna puntare sulla stipidità" (p. 144).
W. Siti, Il canto del diavolo, Rizzoli 2009.

lunedì 16 novembre 2009

La strada, di Cormac Mc Carty

Un libro profetico, questo di Mc Carty, che ci racconta il mondo come sarà quando il mondo non esisterà più: solo cenere, tronchi neri e bruciati, luce grigia, colori spogliati,polvere e vento, vento e polvere. Freddo. In questo desolato e tremendo paesaggio, un padre e un figlio bambino vagano alla ricerca di un rifugio, si dirigono verso sud, ricercando strade e direzioni su una vecchia carta geografica a brandelli. Incontrano scheletri di paesi e di città, gusci vuoti di fabbriche, camion, treni, tecnologie depredate ed inutili. E vanno, tuttavia. Perché loro sono "i buoni", quelli che portano il fuoco, e i buoni non si fermano, non si arrendono, trovano la loro ragione d'essere in sé stessi, nei loro affetti, profondi e taciuti, nelle loro paure, sempre più acute e sempre più vere, concrete, carnali.
"E dall'altra parte cosa c'è?
Niente.
Ci deve pur essere qualcosa.
Magari ci sono un bambino e il suo papà seduti sulla spiaggia.
Non sarebbe male.
E magari anche loro portano il fuoco, no?
Sì, magari sì.
Però non lo sappiamo.
Non lo sappiamo, no.
Quindi dobbiamo tenere gli occhi aperti.
Dobbiamo tenere gli occhi aperti. Esatto." (pag. 165).
Il libro non finisce bene, a consolazione del lettore; ma non finisce neppure male. Mette le cose al loro posto, ci riconduce al concreto della condizione umana e dell'esistenza del "mondo": "Nelle forre dove vivevano ogni cosa era più antica dell'uomo, e vibrava di mistero".
Un libro da leggere, dunque.
(Eleonora Bellini)
C. Mc Carty, La strada, Einaudi 2007.

sabato 24 ottobre 2009

1909. Un testimone del massacro degli armeni

E' uscito lo scorso anno un libro che narra, attraverso il ritrovamento del diario di un missionario francese, il massacro degli Armeni nella città turca di Adana nel 1909. Si tratta di: Stainville Raphaël, Grande male Medz Yeghern. Turchia 1909. Un testimone del massacro degli Armeni, San Paolo Edizioni 2008, Traduzione e nota introduttiva di Eleonora Bellini.
Riportiamo qui una parte della nota introduttiva:
- Adana è una città turca della Cilicia, regione dell'Anatolia sud-orientale, ed è situata al centro della fertile piana del fiume Seihan. La sua storia risale all'epoca degli Ittiti e fu posta successivamente sotto la dominazione di greci, assiri, persiani, romani. In epoca cristiana, è documentata la partecipazione del suo vescovo Paolino al Concilio di Nicea; poi di Ciriaco a quello di Costantinopoli. Al successore di quest'ultimo, Anatolio, Giovanni Crisostomo scriveva apprezzamenti per il fatto che Adana si presentava come “città tranquilla e felice”. Nel 395, dopo la morte di Teodosio, la città fece parte dell'Impero Bizantino; poi, verso il 650, venne conquistata dagli arabi per ritornare ai bizantini nel 964 con Basilio II. Da questo momento in poi vi si sarebbero insediati molti armeni (la chiesa armena si era distinta dalle altre cristiane nel VI secolo). Ad Adana, nel 1097, gli armeni accolsero i paladini della Prima Crociata. La città fece quindi parte del regno della Piccola Armenia o Armenia Minor, fino all'annessione all'Impero Ottomano, con Selim I, nel 1517.
Nell'aprile del 1909, quando si svolsero i terribili fatti raccontati in questo libro, la città contava circa trentamila abitanti: musulmani per poco meno della metà, poi circa dodicimila armeni, qualche migliaio di greci e pochi altri. La popolazione lievitava d'estate con gli stagionali che vi giungevano per la lavorazione del cotone. Cominciava ad insediarvisi l'industria tessile ed Adana era apprezzata per la lavorazione artigianale di tessuti, tappeti, ceramiche, oreficeria. Altre sue ricchezze erano gli oliveti, gli aranceti, i vigneti della campagna circostante, nonché la pescosità del Sehian. Tutte qualità che sembravano legittimare la leggenda secondo la quale il suo nome, considerata la fertilità e la bellezza del territorio, poteva derivare da Eden,.
Sul versante politico esistevano forti tensioni, nella città come nel resto del Paese, fin dall'autunno del 1908. La presa del potere da parte dei Giovani Turchi, che proclamavano di muoversi guidati dagli ideali di liberté, egalité, fraternité, aveva creato la convinzione che l'epoca cruenta di Abdul Hamid, il “sultano rosso” responsabile delle stragi di armeni avvenute tra il 1894 ed il 1896, fosse stata una triste parentesi, chiusa per sempre. Tuttavia le tensioni serpeggiavano ancora fra le diverse fazioni - gli stessi Giovani Turchi, i liberali, i nostalgici dello stato islamico – soggette, tra l'altro, alle interferenze delle potenze straniere. E queste tensioni si estendevano dal versante politico a quelli economico, etnico, religioso. In realtà, la Costituzione del nuovo Stato Turco, laico, garantiva a tutte le confessioni pari libertà religiosa e pari diritti. Ma da alcuni mesi, ad Adana, correvano voci su una presunta rivolta organizzata dagli armeni. Ai primi di marzo dell'anno 1909 un grave oltraggio alla Grande Moschea, la cui porta venne cosparsa di escrementi, contribuì ad irritare gli animi dei musulmani, e questo anche se l'innocenza degli armeni, e dei cristiani in generale, fu provata. [...]
Il reportage di Stanville si snoda su due piani temporali diversi e che tuttavia procedono paralleli. All'inizio della narrazione il giovane autore, in viaggio a piedi da Parigi a Gerusalemme, viene ospitato da alcune suore italiane che si occupano della chiesa di San Paolo in Adana. Le suore, stabilitesi nella città nel 1996, appartengono all'ordine delle Piccole Figlie dei Sacri Cuori di Gesù e di Maria di Parma. Una di loro gli affida in lettura un manoscritto trovato tra le carte disordinate della povera biblioteca della chiesa. All'apertura del manoscritto, incredulità e sgomento dapprima, indignazione ed orrore poi, si impadroniscono di Stainville e la primavera del 1909, nella quale si scatenarono i massacri degli armeni nella città di Adana e nella sua provincia, torna a rivivere. La narrazione procede quindi per una parte nel presente e per l'altra nel passato, attraverso la trascrizione delle pagine del diario contemporaneo all'eccidio[...]
Per il lettore italiano può essere interessante citare un passo tratto da un articolo de La Civiltà Cattolica contemporaneo a quei fatti (E. Rosa, “Le recenti stragi di Adana”, 1909, II, p. 740): “...a poche miglia da una rada ove sorgevano corazzate di nazioni civili, da una città dove erano i loro consoli ed i loro rappresentanti, succedeva per mezzo mese un macello di popolazioni innocenti senza che una mano di uomini risoluti o un passo vigoroso di potenze europee valesse ad impedirlo”. La rivista dei gesuiti, che utilizzava informazioni provenienti dai propri religiosi missionari in Turchia (nel collegio maschile di Adana insegnavano in quell'anno una trentina di padri), aveva dato spazio già nel 1896 alla condanna delle violenze contro gli armeni e lo avrebbe fatto anche successivamente, nel 1915, sempre facendo notare le responsabilità dei governi occidentali, che si concretavano, se non nell'assoluto silenzio, in proteste tardive, distaccate, inefficaci.
E sul versante degli oppressori? Il governo turco negò che le stragi e le deportazioni di armeni obbedissero alla logica del genocidio. Affermò piuttosto che queste costituirono la risposta al fatto che, in diversi momenti critici nella politica interna o estera - ad esempio allo scoppio della prima guerra mondiale -, manipoli armeni si fossero organizzati per muovere in rivolta contro lo stato turco. E questo giudizio, ad oltre un secolo dalle prime stragi, non è stato sostanzialmente modificato, come nota Stainville negli ultimi capitoli, che dedica alle difficili condizioni di vita attuali delle comunità cristiane in Turchia. Nonostante alcune aperture e il tentativo di avvicinamento all'Europa, il genocidio degli armeni viene negato dalle fonti ufficiali turche. Oggi come nel 1909 di Adana.
Ma la repressione e la punizione di armeni ribelli ed armati esigevano davvero, per essere efficaci, i lattanti infilzati sulle scimitarre, le fanciulle affogate nel Seihan, le madri con il ventre squarciato?
Al capitolo 10 di questo libro si fa cenno ad un rozzo poliziotto che legge in ufficio il Mein Kampf di Hitler. E torna così alla mente un'altra domanda, anch'essa retorica, che lo stesso Führer, nell'agosto del 1939, poco prima di aggredire la Polonia, pose ai suoi collaboratori, per vincere ogni loro titubanza di fronte ai piani di sterminio: "Chi si ricorda più del massacro degli Armeni ?" -.
(Tutti i diritti riservati Ed. San Paolo)

lunedì 5 ottobre 2009

Il cammino della speranza, di Sandro Rinauro


Questo libro di oltre 400 pagine tratta un argomento il cui ricordo è ormai scomparso dalla memoria di molti di noi: l'emigrazione clandestina di italiani in altri paesi europei, molto diffusa nel periodo tra le due guerre mondiali e fino agli anni Cinquanta.
In copertina il volume reca un'immagine tratta dal celebre film omonimo di Pietro Germi, la cui scheda sintetica potete trovare qui: http://www.archivio.raiuno.rai.it/schede/9006/900684.htm

L'introduzione parte dall'idea diffusa che considera le migrazioni illegali come conseguenza della attuale globalizzazione economica e sociale; tuttavia, prosegue, oltre il 50% per cento dei lavoratori italiani emigrati in Francia tra il 1945 e il 1960 erano clandestini, poi seguiti illegalmente dalle proprie famiglie. Così fu anche per altri Paesi "esportatori" di manodopera come Spagna e Portogallo. Come spiegare, allora, questo fenomeno verificatosi ben prima della globalizzazione?
Lo studio della emigrazione clandestina italiana, afferma l'autore, "non contribuisce solo alla conoscenza di un aspetto importante e misconosciuto della storia sociale nazionale, ma anche alla comprensione delle cause e dei meccanismi della grande diffusione dell'esodo illegale in Europa prima dell'avvento della globalizzazione. La ricostruzione della vicenda ha permesso di ricostruire anche la conoscenza delle condizioni degli emigranti italiani [...] questo libro dedica tanto spazio alle modalità del viaggio, ricorrendo alle drammatiche descrizioni coeve dell'attraversamento clandestino dei confini (non di rado funesto), all'indagine del disagio occupazionale e abitativo degli illegali e alla loro precarietà sui mercati di lavoro stranieri."
Il volume si chiude con la narrazione della tristissima vicenda dei clandestini italiani indotti a combattere nelle guerre di Indocina e di Algeria.

S. Rinaudo, Il cammino della speranza, Einaudi Storia 2009.

lunedì 14 settembre 2009

FILIPPO FOCARDI, Criminali di guerra in libertà: da una recensione di Francesco Omodeo Zorini

Per la cortesia di Francesco Omodeo Zorini, anticipiamo alcuni brani della sua recensione al volume di FILIPPO FOCARDI, "Criminali di guerra in libertà. Un accordo segreto tra Italia e Germania federale 1949-55", prefazione di Lutz Klinkhammer, Roma, Carocci, 2008, pp. 170, € 18.00. La pubblicazione integrale del testo è prevista sulla rivista "I sentieri della ricerca" (dir. A. Del Boca):

"Chi avesse ancora delle perplessità, ma sincere, sulla validità della tesi della continuità dello Stato tra fascismo e post-fascismo, cara, mi sovviene, al nostro maestro Guido Quazza, (che poi è la tesi affacciata da Lutz Klinkhammer tra Reich e Germania federale), è servito. Un “accordo segreto” tra Italia e Germania consentì la scarcerazione dei criminali di guerra tedeschi. Una storiaccia. Fanno breccia sentimenti e pensieri difficili a vestire di parole. Una politica malata fa ammalare la lingua e viceversa.

Il patto scellerato – ennesima conferma di un’evidenza da cavare gli occhi della mancata defascistizzazione dell’Italia dopo il 25 aprile – cui allude il titolo di Focardi, non è in effetti una novità storiografica. Lo rese noto lo studioso stesso nel 2003 in un convincente saggio su “Italia Contemporanea”, in cui, tra le altre cose, denunciava la questione del fondo H-8, sui crimini di guerra, presso l’archivio dell’Ufficio storico dello stato maggiore dell’esercito, in permanente riordino da circa quattro anni, sottraendo di fatto le carte agli studiosi dopo l’uscita del volume di Costantino Di Sante, Italiani senza onore.

In sostanza nel novembre 1950 Heinric Höfler, Kamerad und Freund compagno di partito e amico personale del cancelliere Adenauer, s´accordò in veste di suo emissario con il conte Vittorio Zoppi, segretario generale del ministero degli Esteri, per il proscioglimento dei criminali di guerra tedeschi condannati con sentenza definitiva. Nel volgere di alcuni mesi, con provvedimenti di grazia firmati dal presidente della Repubblica Luigi Einaudi e controfirmati dal ministro della Difesa Randolfo Pacciardi (ex volontario antifascista nella guerra di Spagna), costoro furono rimpatriati in Germania in gran segreto. Tra loro, gli ufficiali del cosiddetto Gruppo di Rodi. In testa il Generalmajor Otto Wagener, il capitano Helmut Meeske, i maggiori Johann Koch e Herbert Nicklas, responsabili dell’uccisione sull’isola greca di migliaia di prigionieri di guerra italiani. Ieri come oggi nazisti e fascisti in libera uscita.

Il dossier straordinariamente accurato si concentra con meticolosa acribia sulla clamorosa vicenda. La certifica. Ne ricostruisce passo a passo le modalità di attuazione in cui giocò un ruolo primario la complicità del Vaticano. E ciò soprattutto per mezzo dell’azione – avallata in alto loco pur nello sconcerto del Segretario di Stato Montini – del vescovo austriaco rettore del Collegio teutonico di Santa Maria dell’Anima in Roma, Alois Hudal. Ordinato da Pacelli all’epoca della nunziatura apostolica nel Reich, era stato fin da allora fautore fanatico di un “nazionalsocialismo cristiano” incarnato da Hitler “Sigfrido della grandezza tedesca”, e poi quinta colonna dell’organizzazione Odessa per l’esfiltrazione dei criminali nazisti in America Latina, tanto da essere implicato, parrebbe, addirittura nella fuga di Eichman (indefessa fu anche l’opera prodigata in favore dei nazisti da parte del sacerdote cattolico J. W. Jurowsky).

L’A. si avvale di documentazione di prima mano, proveniente dall’Archivio del Tribunale militare territoriale di Roma, da quello storico-diplomatico del ministero degli esteri, dall’Archivio centrale dello Stato, da quello federale tedesco di Coblenza e da quello politico del ministero degli esteri di Berlino. Per di più in appendice allega una silloge della repertazione probatoria riproducendo 26 scottanti documenti: appunti, lettere, sentenze, decreti, rapporti, tutti del periodo 1946-54, tra i quali compare in chiaro persino la firma di Konrad Adenauer.

Nelle carceri italiane erano così rimasti soltanto Kappler e Reder, a far da specchietto per le allodole, nell’inveterata ambiguità italiana, alla negata giustizia contro i criminali, a molti dei quali era stato dato come escamotage il tempo e fornita l’occasione di scappare, per così dire a risarcimento dell’emanazione dei mandati di cattura. Una mano lava l’altra. Non si dice così nel cinismo amorale del potere di casa nostra?"

martedì 28 luglio 2009

La forma della paura di Giancarlo De Cataldo e Mimmo Rafele

"L'operazione Re-building... la madre di tutta la contemporaneità. Big Oil aveva cominciato a diffondere la notizia verso la fine degli anni Settanta. Il termine "multinazionale" era stato fatto abilmente girare. Si erano presi contatti con teste d'uovo sparse in tutte le democrazie occidentali. Si erano impiantati centri direzionali nelle maggiori capitali europee [...] Big Oil avrebbe preso il controllo della situazione con ogni mezzo... dissolvendo gli Stati dove occorreva e integrandoli dove la questione si presentava più complessa [...] Era un processo irreversibile. Il Muro sarebbe caduto e la caduta avrebbe travolto ogni utopia di sottrarre il mondo alle solite vecchie regole di sempre..."
- Insomma, professore: dire la verità prima degli altri, affidarsi a soggetti impresentabili per la divulgazione, lasciare che i profeti si trasformino agli occhi di tutti in profeti di sventura, e alla fine raccogliere i frutti...-
(pp. 206-207)
Un giallo, il primo del mondo post Bush, recita la quarta di copertina. Vale la pena leggerlo, perché si legge d'un fiato.
La forma della paura di G. De Cataldo e M. Rafele, Einaudi editore 2009.

giovedì 9 luglio 2009

La Città in due recenti romanzi

La Città è Istanbul, l'antica Costantinopoli (e così continuano a chiamrla i Greci), capitale dell'Impero Romano d'Oriente e capitale dell'Impero ottomano. Istanbul vive - e rivive - in due recenti romanzi: La balia di Petros Markaris e Il ritratto Bellini di Jason Goodwin. Entrambi polizieschi, sono tuttavia ambientati in epoche diverse: la nostra nel primo; l'Ottocento nel secondo. E certo la Città non ne è la protagonista dichiarata, eppure...
Il commissario Charitos, che ad Istanbul si trova in vacanza, attraverso un inaspettato caso da risolvere capitatogli tra capo e collo della Città rivive le epoche dello splendore e quello delle persecuzioni, o, meglio, ne ricerca le tracce ancor vive sotto la crosta ormai globalizzata e sempre più legata alle leggi "universali" del mercato della Istanbul contemporanea.
Il romanzo di Jason Goodwin invece si svolge per gran parte a Venezia e ne descrive somiglianza e fratellanza, quasi un gemellaggio, con Istanbul, sorella d'acque di ponti e di confini, di architetture splendide sulle quali tuttavia incuria e crisi tracciano crepe profonde; i protagonisti, poi, Palewski e l'eunuco Yashim, sono entrambi stranieri in missione alla ricerca del favoloso "ritratto del Bellini" (Gentile).
Insomma, chi legge è attratto, oltre che dalla curiosità di vedere come si scioglieranno i casi polizieschi, proprio e profondamente dalla Città, dalla sua storia, da quel ponte vivente tra Europa ed Asia che essa è - e che, afferma Goodwin, storico oltre che scrittore di gialli, ha in Venezia il suo secolare specchio e parallelo - e che dunque non sarebbe assennato ignorare o addirittura abbattere.

domenica 7 giugno 2009

Per i bambini: l'agnellino

Una chiara mattina di primavera
- ascoltate, che è storia vera! –
nonno Pino appena alzato
apre la porta ed esce nel prato.

Nonno lavora con zappa e rastrello,
innaffiatoio, guanti e cappello:
nel suo piccolo prato già son fiorite
ben quattro viole e tre margherite.

Mentre si aggira indaffarato
il nonno si scuote udendo un belato:
“Chi sarà mai che bela al mattino?
Non vedo nessuno qui nel giardino”.

Ma un fiocco di lana sul biancospino
è il ricciolo nuovo di un agnellino:
un ramo oscilla come fatato,
si apre la siepe, il mistero è svelato.

Su quattro zampette un poco tremanti
il piccolo agnello già viene avanti,
arriva accanto a nonno Pino,
gli lecca le scarpe, gli fruga il taschino.

E’ Pasqua oggi ed è proprio bello
vedere il nonno che abbraccia l’agnello
e con le campane dal suono spiegato
cantare l’uomo, innalzarsi il belato.


Eleonora Bellini

lunedì 1 giugno 2009

Lettera a mia zia sul corretto approccio alla poesia moderna, di Dylan Thomas

Per te, zia mia, che vorresti esplorare
il Chankley Bore letterario,
duro è il sentiero perché tu non sei
un'ottentotta letteraria
ma sei una colta e gentile signora
che non conosce Eliot (a suo disdoro).
E' un'onta, zia, che tu non scorga
nessun talento in David G.
e nessuna armonia, nessuna forma,
in Ezra Pound e T. S. E.
E' un'onta, zia! Ora ti mostrerò
come elevare la mediocrità
e salire a vedere il panorama
da una moderna altezza parnassiana.

Primo, compra un cappello,
non un modello di Parigi
ma di quelli che indossano gli svizzeri
quando yodellano, una cosa a bombetta
con qualche piuma per nascondere la vista;
e poi scendi in strade con i sandali
(i pittori moderni usano i piedi
sopra strisce di tela per dipingere
le loro mogli e madri meno i fianchi).

Forse sarebbe meglio che creassi
qualcosa di novissimo,
un romazetto osceno scritto in erse
o in distici gallesi in senso inverso;
oppure quadri sul dorso di giubbetti
o salmi sanscriti su lebbrosi petti.
Ma se ciò risultasse in-attuabile
andrà bene lo stesso,
potrai scrivere quello che ti piace,
e far versi moderni è alquanto facile.
Non ti dimenticare che "mignatta"
fa rima con "mignotta" in questi tempi inquieti
e che le virgole sono il peggor delitto.
Pochi intendono Cummings, e pochi
i bassifondi mentali di Joyce,
e pochi le chiacchiere in codice
del giovane Auden: d'altronde
sono i pochi che contano.
Non essere mai chiara, non esprimere
nessun pensiero o sentimento,
se vuoi sentirti proclamere grande,
(pensare, lo sappiamo, è decadente);
non tralasciare parole vitali
come pancia, (...) e genitali,
perché sono tutte cose che hanno parte
(e quale parte) in ogni buona arte.
Ricordati: ogni rosa è verminosa,
ed ogni bella donna è contagiosa;
e ancora questo: l'amore dipende
da come il guanto gallico pende.
Rammenta inoltre che la vita è inferno;
e il paradiso ha un tanfo
d'angeli putrescenti che su e giù
fanno una gran baldoria dentro il blu.
Con questo in mente cosa fermerà
l'ascesa del poeta verso la sommità?

Un'ultima avvertenza: prima che ti comincino
le convulsioni dell'arte,
togliti il cuore, elimina il cervello;
senza questo flagello, potrai sì
essere un genio come David G.

Fatti coraggio, zia, e manda la tua roba
a Geoffrey Grigson con il mio "soffietto",
e possa io vivere ancora
per godere il successo dei tuoi versi
nell'accendere il fuoco.

(traduzione di Ariodante Marianni)

giovedì 14 maggio 2009

Proviamo a cambiare le parole, di Eleonora Bellini

Proviamo a cambiare le parole
e anziché clandestino, immigrato
e straniero ed extracomunitario
diciamo Mohamed e Alina e Ivan
e Irina e Omar e Igiaba.
Poi facciamo scorrere
dinanzi agli occhi luoghi e storie
e fughe e speranze ed amori
e risa e pianto e dolori.
La storia di un uomo che nel buio incerto
del mattino pedala e va al cantiere,
il sorriso della donna che consuma
il suo veloce pasto nell’attesa
dell’autobus. Fatti di gente
e gente fatta di voce
e di occhi e di carne e di pensieri.
Poi torniamo
indietro negli anni quando erano
grigie e rare le foto e lì incontreremo
Rocco e Rosa e Luigi e Maria col fardello
dei figli, stretti al baule per il viaggio,
commossi e assai tremanti
al pensiero dell’incontro con lingue
sconosciute, con ignote geografie.
Paure da poveri e coraggio.
Poi guardiamo
nello specchio di casa il nostro volto,
figura d’altri volti antichi e nuovi,
volti sconosciuti - chi sa i nomi ed i luoghi
di qualcuno che risalga oltre i bisnonni? –
e lo vedremo figlio
di gente ignota e venuta da lontano:
antenati
a ciascuno comuni e clandestini
ci scorrono nel corpo, dentro il sangue.

Eleonora Bellini

lunedì 11 maggio 2009

da IL CODICE DELL'ANIMA di James Hillman

Morte è una parola troppo pesante e incompatibile per associarla alle intense vibrazioni dell'amore romantico; ma l'amore romantico più di tutti riverbera del senso dell'eterno e insieme della brevità e fragilità della vita, come se sulla passione romantica fossero sempre sospesi l'ombra e il respiro della morte, con il suo richiamo a un altrove che è "oltre" e senza confini. Si affrontano rischi pazzeschi. E quando la letteratura unisce gli amanti romantici, unisce anche il loro amore con la morte. L'occhio del cuore che "vede" è anche l'occhio della morte che vede al di là dell'apparenza visibile fino a un invisibile cuore. Michelangelo, quando scolpiva ritratti di personaggi del suo tempo o statue di figure della religione o del mito, cercava di vedere quella che chiamava l'immagine del cuor, una prefigurazione di quello che stava scolpendo, come se lo scalpello che intagliava la pietra seguisse l'occhio che penetrava il soggetto fino al cuore. Il ritratto mirava a rivelare l'anima intima del suo soggetto. In ciascuno di noi è racchiusa un'immagine del cuore. E l'autentica rivelazione si ha quando cadiamo in preda all'amore, perché allora siamo aperti a mostrare chi più autenticamente siamo, lasciando intravedere il genio della nostra anima [...] Quando l'amore smuove il cuore, si percepisce un qualcos'altro, nell'oggetto idoleggiato, che la lingua della poesia cerca di catturare. Michelangelo cercava di esprimere quell'immagine nella forma scolpita. Le categorie di natura e cultura non arrivano fino al cuore né vedono attraverso il suo occhio. [...] L'incontro tra amante ed essere amato avviene da cuore a cuore, come l'incontro tra scultore e modello, tra mano e pietra.

martedì 28 aprile 2009

S'i fossi foco, di Cecco Angiolieri

S'i' fossi foco, arderei lo mondo;
s'i' fossi vento, lo tempestarei;
s'i' fossi acqua, i' l'annegherei;
s'i' fossi Dio, mandereil' en profondo.

S'i' fossi papa, sarei allor giocondo,
ché tutt'i cristiani imbrigherei;
s'i' fossi 'mperator, sa che farei? a tutti taglierei lo capo a tondo.

S'i' fossi morte, andarei a mi' padre;
s'i' fossi vita, fuggirei da lui,
similemente faria da mi' madre.

S'i' fossi Cecco, com'i' sono e fui,
torrei le donne giovani e leggiadre:
le vecchie e laide lasserei altrui.

sabato 28 marzo 2009

Il bambino senza nome, di Mark Kurzem

Se non vi aspettate uno stile brillante né una traduzione ineccepibile, ma volete scoprire, attraverso un romanzo, un periodo di storia sinora pressoché ignorato, leggete Il bambino senza nome (Piemme, 2009). L'autore narra la storia di suo padre, ebreo russo, fuggito di casa a cinque anni nella notte che precedette l'eccidio di tutti gli ebrei del suo villaggio (Koidanov, in Bielorussia) da parte dei nazisti e delle milizie lituane fiancheggiatrici del nazismo. Il bimbo fu trovato e cresciuto dai militari delle SS - che lo trasformarono in bambino soldato, ignara ed irrequieta mascotte testimone di stragi - e da una famiglia lituana loro fiancheggiatrice. Poi emigrato in Australia, nella piena maturità della sua età adulta il "bambino senza nome" trova la forza di superare il trauma e di raccontare la propria storia: dapprima a frammenti, poi sempre più chiaramente. Inizia così il suo viaggio a ritroso per riscoprire le proprie origini e, soprattutto, per fare la pace con il proprio passato. Il libro, inoltre, al di là del racconto di una vicenda individuale, fa luce su un periodo infausto della storia della Lituania complice del nazismo, poco nota al pubblico dei lettori italiani.
Ed ecco il contenuto del famoso filmato - famoso e breve: poco più di due minuti. Si apre con mio padre che marcia sul prato seguito dagli altri bambini - un piccolo ebreo soldato al comando di un gruppetto di bambini ariani! La voce fuori campo narra in tedesco la storia del "bambino in divisa", il bambino "trovato da un drappello di SS Lettoni, che lo hanno salvato dai pericoli del fronte".

 

domenica 15 marzo 2009

La porta, da Mircea Eliade

"Certi temi della nostra letteratura popolare sono estremamente ricchi dal punto di vista drammatico. Così la porta (elemento dell'architettura tradizionale del villaggio romeno: scolpita in legno, è posta al suo ingresso, n.d.r.) il cui ruolo nella vita del popolo romeno è quella di un'entità magica che veglia sugli atti più importanti dell'esistenza umana. Il primo passaggio sotto la porta equivale quasi a un ingresso nella vita reale, esterna. Essa veglia sul matrimonio, e sotto di essa è solennemente condotto il defunto, verso l'estrema dimora. E', dunque, un ritorno al mondo degli inizi; il ciclo è concluso, e la porta resta nel tempo, con un uomo in meno, a vegliare su altre nascite, altre nozze, altre morti. Si provi a pensare a quale superbo dramma potrebbe svolgersi all'ombra di una porta."
da L'isola di Euthanasius, scritti letterari di Micea Eliade (p. 298)

domenica 8 marzo 2009

Le due ragazze con gli occhi verdi, di Giorgio Montefoschi

"Pietro amava suo nonno. Amava gli occhi celesti, miti, offuscati da un velo acquoreo impercettibile sempre sul punto di disfarsi; le macchie brune sul dorso delle mani e sulle tempie; i capelli grigi, morbidi, accompagnati oltre la fronte dal pettine imbevuto in due gocce d'acqua. Amava il profumo di carta e di libri che si respirava nella sua stanza. Amava la sagoma di legno sulla quale appendeva la giacca prima di infilarsi il golf; la luce bassa del tavolo sul quale campeggiava la fotografia della nonna che non aveva conosciuto; il profumo e il calore del golf; la protezione delle sue braccia" (p. 14).
"- Io ti amo - disse Pietro tra sé e sé. Amava i suoi occhi trasparenti, verdi adesso come le chiome lontane dei pini; il suo profilo, misteriosamente infantile e adulto; la macchia di lucido sulla calza; la piega della gonna in grembo; il profumo del burro di cacao; come aveva detto, chinando il viso: - Lo so -. Quindi, le prese la mano.
- Io - disse - vorrei scrivere un libro bellissimo -.
Lei non replicò.
- Un libro - proseguì da solo, dunque - nel quale ci deve essere tutto -. [...]
- Se in un libro - disse Pietro sciogliendo le dita - uno non ci mette tutto quello che ha dentro, tutto quello che pensa, è inutile farlo...-" (109-110).
Bello, vero, questo romanzo di Montefoschi, nel quale gli eventi si avvicendano mescolati alle più minute azioni quotidiane, consueti e speciali come nella vita, in ogni vita; dove la città, Roma, le sue luci, i suoi colori, i suoi profumi si susseguono nelle stagioni dell'anno e nelle storie dei protagonisti, familiari ed indelebili; dove l'amore può possedere e vivificare, ma anche sconvolgere e perdere. Pietro, il protagonista principale, porta con sé, attraverso tutta la vita, la presenza del suo amore: Laura, una contraddittoria ragazza dagli occhi verdi, ritrovata poi donna e infine perduta. Quando ne conoscerà la figlia, uguale negli occhi e nella voce, stupore e dolore, attrazione e fuga non gli lasceranno scampo.
G. Montefoschi, Le due ragazze con gli occhi verdi, Rizzoli
Grazie a Corrado Augias per avere segnalato il libro nella trasmissione "Le storie"

domenica 1 marzo 2009

da "Carambole", di Hakan Nesser

"Non era un'occupazione spiacevole girare per quell'antica dimora borghese [...] e sfogliare vecchi libri. Si sarebbe preso tutto il tempo necessario: la gotta ereditaria impediva a Krantze, il suo socio, di svolgere qualsiasi lavoro che non potesse essere eseguito da seduti o da sdraiati. Naturalmente prima Krantze si era voluto assicurare che la biblioteca non comprendesse nessuno scritto scientifico del Seicento o del primo Settecento, quel ristretto campo che nell'autunno dell'esistenza era diventato il suo autentico ossigeno vitale (e l'unico, aveva dovuto constatare Van Veeteren)."
Il commissario Van Veeteren è un fortunato personaggio creato dallo scrittore svedese Hakan Nesser. Carambole (Guanda Editore) è il settimo romanzo della serie di cui Van Veeteren è protagonista e vale la pena di leggerlo: all'intreccio della trama e alle storie dei personaggi si uniscono interessanti riflessioni sugli intrecci della vita, le carambole appunto, che determinano incontri e scontri di esseri umani con la stessa indifferente casualità con la quale fanno scivolare le bianche palline sul tappeto verde di un biliardo.
Grazie alla bibliotecaria Debora Casagranda per aver segnalato il libro

martedì 3 febbraio 2009

Elogio della tolleranza, di Voltaire

“Se l’intolleranza è di diritto naturale o di diritto umano”
Il diritto naturale è quello che la natura indica a tutti gli uomini. Avete allevato vostro figlio, egli vi deve rispetto perché siete suo padre, riconoscenza perché siete suo benefattore. Avete diritto ai prodotti della terra che avete coltivato con le vostre mani. Avete dato e ricevuto una promessa, questa deve essere mantenuta. Il diritto umano non può in nessun caso fondarsi su questo diritto di natura e il grande principio, il principio universale dell’uno e dell’altro, è su tutta la terra: “Non fare ciò che non vorresti fosse fatto a te”. Ebbene, non si vede come, se si segue questo principio, un uomo possa dire a un altro: “Credi quello che io credo e che tu non puoi credere, altrimenti morrai”. E’ ciò che si dice nel Portogallo, in Spagna, a Goa. Ci si accontenta adesso, in alcuni altri Paesi, di dire: “Credi, o ti aborrisco; credi, o ti farò tutto il male che potrò; mostro, tu non hai la mia religione, tu non hai dunque religione alcuna, bisogna che i tuoi vicini, la tua città, la tua provincia abbiano orrore di te!” Se questa condotta fosse conforme al diritto umano, bisognerebbe dunque che il giapponese esecrasse il cinese, che a sua volta esecrerebbe il siamese; questi perseguiterebbe i gangaridi, che si getterebbero sugli abitanti dell’Indo; un mongolo strapperebbe il cuore al primo malabaro che incontrasse; il malabaro potrebbe strozzare il persiano, il quale potrebbe massacrare il turco; e tutti insieme si precipiterebbero sui cristiani, che così a lungo si sono divorati tra di loro. Il diritto dell’intolleranza è dunque assurdo e barbaro: è il diritto delle tigri; è anzi ben più orrido, perché le tigri non si fanno a pezzi che per mangiare, e noi ci siamo sterminati per dei paragrafi”. (dal Trattato sulla tolleranza, Cap. 6, 1763)

giovedì 15 gennaio 2009

Come si prevengano i delitti, di Cesare Beccaria

È meglio prevenire i delitti che punirgli. Questo è il fine principale d'ogni buona legislazione, che è l'arte di condurre gli uomini al massimo di felicità o al minimo d'infelicità possibile, per parlare secondo tutt'i calcoli dei beni e dei mali della vita. Ma i mezzi impiegati fin ora sono per lo piú falsi ed opposti al fine proposto. Non è possibile il ridurre la turbolenta attività degli uomini ad un ordine geometrico senza irregolarità e confusione. Come le costanti e semplicissime leggi della natura non impediscono che i pianeti non si turbino nei loro movimenti cosí nelle infinite ed oppostissime attrazioni del piacere e del dolore, non possono impedirsene dalle leggi umane i turbamenti ed il disordine. Eppur questa è la chimera degli uomini limitati, quando abbiano il comando in mano. Il proibire una moltitudine di azioni indifferenti non è prevenire i delitti che ne possono nascere, ma egli è un crearne dei nuovi, egli è un definire a piacere la virtú ed il vizio, che ci vengono predicati eterni ed immutabili. A che saremmo ridotti, se ci dovesse essere vietato tutto ciò che può indurci a delitto? Bisognerebbe privare l'uomo dell'uso de' suoi sensi. Per un motivo che spinge gli uomini a commettere un vero delitto, ve ne son mille che gli spingono a commetter quelle azioni indifferenti, che chiamansi delitti dalle male leggi; e se la probabilità dei delitti è proporzionata al numero dei motivi, l'ampliare la sfera dei delitti è un crescere la probabilità di commettergli. La maggior parte delle leggi non sono che privilegi, cioè un tributo di tutti al comodo di alcuni pochi.
Volete prevenire i delitti? Fate che le leggi sian chiare, semplici, e che tutta la forza della nazione sia condensata a difenderle, e nessuna parte di essa sia impiegata a distruggerle. Fate che le leggi favoriscano meno le classi degli uomini che gli uomini stessi. Fate che gli uomini le temano, e temano esse sole.
Il timor delle leggi è salutare, ma fatale e fecondo di delitti è quello di uomo a uomo. Gli uomini schiavi sono piú voluttuosi, piú libertini, piú crudeli degli uomini liberi. Questi meditano sulle scienze, meditano sugl'interessi della nazione, veggono grandi oggetti, e gl'imitano; ma quegli contenti del giorno presente cercano fra lo strepito del libertinaggio una distrazione dall'annientamento in cui si veggono; avvezzi all'incertezza dell'esito di ogni cosa, l'esito de' loro delitti divien problematico per essi, in vantaggio della passione che gli determina. Se l'incertezza delle leggi cade su di una nazione indolente per clima, ella mantiene ed aumenta la di lei indolenza e stupidità. Se cade in una nazione voluttuosa, ma attiva, ella ne disperde l'attività in un infinito numero di piccole cabale ed intrighi, che spargono la diffidenza in ogni cuore e che fanno del tradimento e della dissimulazione la base della prudenza. Se cade su di una nazione coraggiosa e forte, l'incertezza vien tolta alla fine, formando prima molte oscillazioni dalla libertà alla schiavitù, e dalla schiavitù alla libertà.
da Dei delitti e delle pene, cap. XLI. Anno di pubblicazione 1764.

venerdì 9 gennaio 2009

Scorrettezza delle copie, di Cesare Cantù

I lamenti per la scorrettezza delle copie cresceano quanto più cresceva il desiderio di leggere; e il Petrarca esclamava: "Chi recherà efficace rimedio all'ignoranza e viltà dei copisti che tutto guasta e sconvolge? Né fo querela dell'ortografia, già da lungo tempo smarrita... Costoro, confondendo insieme originali e copie, dopo aver promesso una, scrivono un'altra cosa affatto diversa, sì che tu stesso più non riconosci quanto hai dettato. Se Cicerone, Livio, altri egregi antichi, singolarmente Plinio Secondo, resuscitassero, credi tu che intenderebbero i propri libri? o che non piuttosto, ad ogni pié sospinto esitando, or opera altrui, or dettatura dei Barbari li crederebbero? Non v'ha freno nè legge alcuna per tali copisti, senza esame, senza prova alcuna trascelti: pari libertà non si dà pei fabbri, per gli agricoltori, pei tesserandoli, per gli artigiani".
(C. Cantù, Storia della letteratura italiana)