martedì 24 febbraio 2015

La banalità del male, di Hannah Arendt

Hannah Arendt, filosofa ebrea tedesca rifugiata nel 1933 in Francia e successivamente docente in diverse università degli Stati Uniti, seguì nel 1961 e 1962 il processo Eichmann a Gerusalemme, come inviata speciale del New Yorker. Pensava che si sarebbe trovata dinanzi a un mostro sanguinario e invece vide che Eichmann era soltanto un uomo banale, "grigio", un piccolo funzionario ambizioso, zelante e ottuso, incapace di distinguere, all'interno degli ordini che riceveva dai superiori, il bene dal male. Eichmann eseguiva i propri compiti, seguiva le consegne, si asteneva dal pensare. Questo fenomeno di aberrante spersonalizzazione e di abbandono di ogni  ragionamento venne definito dalla Arendt "banalità del male". Non si tratta di perdonare crimini contro l'umanità, ovviamente, ma di riflettere su quanto il male possa risiedere dentro ogni essere umano. Tra i cittadini di un regime totalitario chi compie azioni crudeli e inumane non è, nella sua essenza, molto diverso da chi si dichiara incapace di compiere simili delitti. Questo perché il totalitarismo, attraverso la propaganda e la repressione, mira a distruggere ogni indipendenza di pensiero e di azione, mira a distruggere, in definitiva, l'umanità dell'essere umano. Continuare a "pensare", cioè interrogarsi su se stessi, sulle proprie azioni, sulle leggi è la sola possibilità per non rischiare di cadere nella "banalità" del male o nell'indifferenza cieca e disumana. Socrate, con le sue continue domande sull'essere, con l'incessante suo interrogarsi sulle azioni umane, è per la Arendt il modello di pensatore per eccellenza.
 
- La mia opinione è che il male non sia mai 'radicale', ma soltanto estremo, e che non possegga né la profondità né la dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare tutto il mondo perché cresce in superficie come un fungo. Esso sfida, come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua "banalità" [...] solo il bene ha profondità e può essere integrale."  (da La banalità del male                                          
- Il livellamento delle condizioni dei sudditi è sempre stato una delle principali preoccupazioni dei despoti e dei tiranni fin dai tempi più antichi; ma un simile livellamento non è sufficiente per il regime totalitario, perché lascia più o meno intatti certi legami non politici, come i vincoli familiari e gli interessi culturali comuni. Se tale regime vuole sul serio raggiungere il suo scopo deve far sì che "finisca una volta per tutte la neutralità del gioco degli scacchi", vale a dire l'esistenza autonoma di qualsiasi attività (da Le origini del totalitarismo
- Quel che prepara così bene gli uomini moderni al dominio totalitario è l'estraniazione che da esperienza limite, usualmente subìta in certe condizioni sociali marginali come la vecchiaia, è diventata un'esperienza quotidiana delle masse crescenti del nostro secolo.(da Le origini del totalitarismo
- Se la legalità è l'essenza del governo non tirannico e l'illegalità quella della tirannide, il terrore è l'essenza del potere totalitari (da Le origini del totalitarismo
 
 

martedì 3 febbraio 2015

De l'amour, di Stendhal

"Se avessi la possibilità di stabilire delle consuetudini, impartirei alle fanciulle la medesima educazione che si dà ai ragazzi".
"Italia, il solo Paese in cui cresce in libertà la pianta che descrivo".
"L'amore alla Werter apre l'anima a tutte le arti, a tutte le impressioni dolci e romantiche, al chiaro di luna, alla bellezza dei boschi, a quella della pittura, in una parola al sentimento del godimento del bello, sotto qualsiasi forma esso si presenti".
"Don Giovanni invece di perdersi nei sogni incantati della "cristallizzazione" (idealizzazione) pensa come un generale al successo delle sue manovre e, per dirla con una parola, uccide l'amore invece di goderne più degli altri".



Scritto tra il 1819 e il 1820, per "curarsi" dall'amore infelice per Matilde Dembowski, il trattato stendhaliano sull'amore si divide in due parti. Nella prima vengono descritte le tappe della passione amorosa: l'incontro, il colpo di fumine, gli sguardi, i timori, i pudori... E' questo il momento in cui il sentimento prende l'aspetto della "cristallizzazione", che consiste nell'idealizzare ogni aspetto della persona amata: nel momento iniziale di una relazione tutto ciò che vediamo nell'essere amato ci appare perfetto.  
Questa prima parte dell'opera contiene anche un'aspra, famosissima e lapidaria critica del matrimonio borghese: "E molto più contrario al pudore andare a letto con un uomo che si è visto solo due volte, dopo tre parole in latino pronunciate in chiesa, che cedere proprio malgrado a un uomo che si ama da due anni".
Nella seconda parte Stendhal descrive e compara i costumi amorosi e sessuali di Paesi diversi.
La prima edizione del libro fu poco venduta e molto criticata. Alle critiche, nella presentazione alla seconda edizione (1833), l'autore risponde così: "E' necessaria al lettore, per seguire la disamina filosofica di un sentimento come l'amore, una cosa diversa dall'intelligenza; è assolutamente necessario che egli abbia conosciuto l'amore".
Descrizione "scientifica di una follia molto rara in Francia", De l'amour è il libro meno letto di Stendhal e tuttavia il lettore che vorrà inoltrarsi in questa "via lattea", nebulosa composta da piccoli e piccolissimi astri, potrà esplorare meglio quel sentimento che nasce, nel genere umano, "nel momento in cui nasce la civiltà".