giovedì 27 dicembre 2018

Il demone del moto, di Stefan Grabiński

Stefan Grabiński, nato il 26 febbraio del 1887 a Kamionka Strumiłowa (oggi Kamianka-Buzka) nella provincia di Leopoli facente parte ai tempi della Galizia Polacca e attualmente in Ucraina, è scrittore sinora poco conosciuto in Italia, nonostante sia stato definito dal critico Karol Irzykowski “il Poe Polacco”e sia stato una delle più interessanti figure del fantastico europeo del Novecento. Per conoscere almeno una parte della sua opera narrativa merita di essere letta questa raccolta di racconti fantaferroviari, uscita per Stampa Alternativa a cura di Mariagrazia Pelaia. Scrive la curatrice nell'approfondito saggio che commenta e chiude il libro: L'aspetto piu' originale dell'opera di Grabiński è l'aver rappresentato il mondo del fantastico e del mistero attraverso medium nuovi e inconsueti come la ferrovia e attraverso l'irruzione di stati psicopatologici e di alterazione della coscienza nel mondo della quotidianita' ispirati alle nuove ricerche sulla relativita' di Einstein.
Il primo racconto, La zona morta, è un piccolo capolavoro nel quale si racconta di un controllore in pensione, Wawera, che decide di dedicarsi al recupero, del tutto volontario, di un tratto ferroviario dismesso. Solitario, devoto al dovere, instancabile e sognatore tanto commuovere il lettore, Wawera fa rivivere un passato che resta indelebile nel suo cuore, ma soprattutto combatte a suo modo disordine e caos, in attesa che qualcosa si compia, che la vecchia ferrovia torni a vivere, se non nella realta', almeno per lui, nelle immagini della mente e nella visione. 
E che dire del treno Infernal Méditerrané il cui mitico itinerario si snoda da Barcellona al Corno d'oro e che una sera, dopo il suo passaggio da Ventimiglia, sparisce nel nulla?
Maestro della letteratura fantastica europea e tra i giganti di questo genere letterario, Grabiński merita di essere scoperto anche attraverso questi racconti di viaggiatori e di treni che introducono inquietudini e mistero nell'esperienza, ormai consueta e perfino banale, del viaggio su rotaie. Non siate disattenti, aguzzate le orecchie, sentite? Le rotaie chiacchierano...



Stefan Grabiński, Il demone del moto, traduzione e cura di Mariagrazia Pelaia, Stampa Alternativa 2015

martedì 6 novembre 2018

Suburra, di Carlo Bonini e Giancarlo De Cataldo

La suburra nella Roma antica era il quartiere abitato dal sottoproletariato urbano che viveva in condizioni miserabili. Era il quartiere nel quale le virtù erano quasi totalmente sconosciute e imperavano povertà, violenza, amoralità. Suburra, titolo evocativo più di ogni altro, è nel nostro caso il romanzo della Roma dell'anno 2011, tra fantasia e, purtroppo, molta realtà. Sono gli anni della banda della Magliana, quando allo stesso tavolo degli affari illegali sedevano, senza scrupolo alcuno, politici corrotti, prostitute, criminali della nuova e dell'antica mafia, alti prelati vaticani, speaker radiofonici e giornalisti al soldo del potere, carabinieri e magistrati sensibili al denaro e per questo corrotti e corruttibili. Coordinatore e sovrano tra tutti è il Samurai, esponente della vecchia destra fascista e violenta, sedicente uomo del destino, imperturbabile e crudele ma di raffinata intelligenza, capace di tirare i fili di una massa criminale informe, incline alla violenza e al delitto, anche quando "non necessario". Suburra è sicuramente un romanzo, ma profondamente radicato nella realtà, che appare irrimediabilmente corrotta, in una capitale di splendida bellezza, offuscata e annerita dall'abitudine al delitto pubblico e privato. Leggiamo e vediamo una Roma notturna, grigia, volgare nelle periferie nate dalla speculazione più intensa e non doma. Non tutti però sono malvagi, vi sono anche i buoni: servitori dello stato fedeli, coraggiosi e intelligenti, idealisti un po' sprovveduti, ingenua gente perbene. Costoro, nel finale provvisoriamente ristabiliscono un equilibrio, esorcizzano il (troppo) male. Anche se l'operazione di riciclaggio ai vertici degli esponenti politici, in costante e inossidabile accordo con le camaleontiche gerarchie vaticane, non fanno sperare in un orizzonte definitivamente sgombro dalla menzogna, dalla corruzione e dal male. E nel lettore rimane l'inquietante sensazione che la suburra sia, ancora e sempre, più diffusa e radicata di quanto si vorrebbe far credere e che la redenzione sia, se non impossibile, lontana.

I. Mitoraj, Ikaro. Dalla copertina del libro

    C. Bonini, G. De Cataldo, Suburra, Einaudi 2013

sabato 13 ottobre 2018

Popolocrazia, di Ilvo Diamanti e Marc Lazar

La dinamica politica è diventata elementare, povera di argomentazioni e ricca di slogan, priva di visioni di lungo periodo e serva degli umori immediati e mutevoli, e non solo in Italia. In questo saggio Diamanti e Lazar descrivono ed esaminano la genesi e le manifestazioni del fenomeno del populismo in Italia e in Francia. Il populismo, come è noto, si è nutrito e si nutre di qualunquismo, di rancore e di diffidenza nei confronti di tutti quelli che "stanno in alto", al governo ma anche in posizioni di responsabilità amministrativa o esecutiva. Richiede soluzioni immediate ed estemporanee, disprezza le procedure di garanzia, la divisione dei poteri. Nega la corresponsabilità di elettori ed eletti. Si affida a opinioni primitive e a procedure semplificate al limite della illegittimità e dell'errore. Chiede interventi veloci e miracolosi, impossibili e pericolosi. Pericolosi perché mettono in serio pericolo la democrazia, così come la conosciamo nel suo evolversi, pur perfettibile, nei Paesi occidentali. Questo saggio esamina, in sette densi e documentati capitoli, la genesi del fenomeno del populismo e il suo trasformarsi in popolocrazia. Gli autori sintetizzano, in conclusione, i risultati della loro disamina in tre punti:
1. Personalizzazione delle istituzioni e dei sistemi di governo, in modo tale da far coincidere organismi con singole persone. A causa di questo, identificate nell'uno o nell'altro volto, le istituzioni perdono la loro capacità di intermediazione tra interessi, idee, valori diversi, tutti chiamati a contemperarsi e interagire verso un fine (e un bene) comune.
2. Metodi e canali di comunicazione. La sedi istituzionali e i partiti di massa sono sostituiti dai media. Non solo la televisione, con la sua modalità di comunicazione "verticale", ma soprattutto la Rete. In quest'ultima non è detto che "uno valga uno", perché vi sono blogger più autorevoli ed abili di altri, vi sono piattaforme costruite con lo scopo non tanto di favorire il dialogo e l'informazione, ma con quello di condizionare e orientare l'opinione altrui. 
3. Adattamento di tutti gli attori politici al linguaggio e alle rivendicazioni dei populisti. Per contrastare la deriva dell'intelligenza e del pensiero, si tende spesso ad imitarla, impoverendo sia il dibattito che l'individuazione di soluzioni. 


I. Diamanti/ M. Lazar, Popolocrazia. La metamorfosi delle nostre democrazie, Laterza 2018

lunedì 17 settembre 2018

Prove d’autunno, di Eleonora Bellini



"Eleonora Bellini ci conduce attraverso un viaggio che si vuole nel contempo evocazione e meditazione intimamente legata all’esperienza del vivere. Le sue Prove d’autunno hanno quindi delle “prove” sia l’accezione del “tentativo” (gli essaisdi montaigniana memoria) sia della “prova” d’autore (d’arte, l’abbozzo, la fotografia...), non senza dimenticare l’accezione più dolorosa del termine, ovvero quella di “pena” subita".
Dalla Presentazione di Fabio Scotto.

Il sottotitolo avverte : “raccolta composita e stravagante mentre già incombe l’assurdo” quasi a suggerire una chiave di lettura particolare che valga contro i luoghi comuni, che cercano di omologare impazienza e polemica , suggestioni e realtà. Un tentativo di scavo nella quotidianità con un intento pittorico di gradevole fattura tra i momenti del tempo e le immagini colorate. Questa silloge si sviluppa in molteplici figurazioni e scomparti, da brevi e concisi pensieri nelle fragili rose di ottobre a incursioni distratte per camminamenti da scoprire , da rincorse improvvise per inseguire il volo dei gabbiani a incisioni e rammendi tra i fogli dispiegati per lettere mai terminate, dalle inconsuete invasioni di una ruspa agguerrita al saltellante ultimo poemetto dal titolo invitante “dentro l’estate dei giorni”. Schiettezza e rigore sono a testimonianza di un lavoro poetico portato con salvifico intento di partecipazione.
Dalla recensione di Antonio Spagnuolo su Poetrydream

La raccolta ultima di Eleonora Bellini, che ha esordito nel 1980 con Metadizionario, si snoda in varietà di versi e di poesie, di sezioni, che in un prosieguo tutto particolare vanno ad una confluenza in cui gli elementi (memoria, paesaggio, radici, sentire, referenti, ecc.) via via si mescolano o si distinguono, emergono o vengono accennati (“Sai che è importante scegliere con cura / le parole, ad una ad una, / e che è meglio poche usarne e abusarne mai / specie in poesia”, Parole, p. 48), si dispiegano e si danno apertamente come in Sera di maggio (p. 86) nel loro significato non univoco e a raggiera. O insistono nel giro di una poesia ironica, con punte di sarcasmo, irridente e sentenziosa di verità tanto vere alla ragione quanto negate da chi si nega alla mente agli occhi alle orecchie, al cuore: così nella sezione Distici.
Dalla recensione di Maria Lenti su Literary



Eleonora Bellini col suo “Prove d’autunno” ci conduce in un universo poetico dove, ancora una volta, gli affetti familiari sono la molla del verso; dove le esperienze personali mettono in azione l’istinto poetico; dove la poesia, talvolta, s’apre a forme di narrazione. Perciò il linguaggio è sempre aperto, chiaro, lindo, levigato, elegante nel suo canto sommesso e delicato. Ma come spesso accade, la poesia sa rivelare, dietro i quadri (familiari, naturali…) apparentemente sereni, un lato oscuro non sempre rassicurante. E non c’è nulla di artificioso o di scontato in questo movimento poetico. Poesia sospesa tra la favola e la realtà, tra la Storia e la quotidianità, poesia che accompagna fedele il viaggio della vita, poesia che a volte si trasforma in libro d’ore e altre volte mostra lo sguardo fermo dell’indignazione.
Insomma un libro che, nella sua articolazione, sa proporre registri diversi, compreso quello della poesia civile. Bellini sa coniugare “una vena elegantemente crepuscolare” come ha rilevato Fabio Scotto nella prefazione, con una ironia epigrammatica pungente che sorprende, senza nulla togliere alla grazia dei versi.
Il piccolo ciliegio
L’ombra s’allunga e il bosco
spande nel giardino la rugiada.
Il piccolo ciliegio
ha già perso le foglie, nudo
dorme nei suoi quattro rami.
La tristezza avanza
con passo oscillante di tartaruga.

Al largo
Duc in altum. Il largo
del tempo plasma più intensi
colori e silenzi, fa acuto
lo sguardo salde ancorando
le voci e le parole.
Dalla recensione di Stefano Vitale su ilgiornalaccio.net
Scheda dell'editore:
http://docs.wixstatic.com/ugd/465b88_4352adad2db34059b4c9449c0f5a5cc8.pdf

domenica 9 settembre 2018

Il lupo è ritornato, di Geoffroy de Pennart


Il signor Coniglio ha paura di andare a dormire perché ha letto sul suo quotidiano preferito, "La gazzetta della carota", una notizia terrificante: il lupo è ritornato! Il giornale consiglia di chiudere bene la porta a chiave. Ma, all'improvviso, qualcuno bussa. Sarà il lupo? No di certo, sono i tre porcellini che, a loro volta, sempre sul quotidiano preferito che per loro è "Il cavatappi", hanno appena appreso del ritorno del lupo nella regione. Che sollievo per il signor Coniglio vedere che il terzetto è sano e salvo! Ma l'arrivo di ospiti non è finito perché tutti i personaggi delle più celebri fiabe dedicate al lupo e perfino l'agnello di mitologica memoria arrivano a rifugiarsi a casa di messer Coniglio. E alla fine, quando ormai più nessun ospite è atteso, arriva anche lui, il lupo tanto temuto. Che faranno gli altri protagonisti? Avranno ancora paura e si lasceranno sopraffare? Sapranno difendersi? Naturalmente il finale non si svela, ma è davvero indovinato.
Il libro è divertente, ricco di umorismo, specialmente nei titoli dei quotidiani, diversi a seconda dei personaggi che li tengono in mano, e nell'illustrazione, ricca di particolari divertenti, e narratrice tanto quanto il testo, anzi suo indispensabile complemento.
Il libro fa riferimento ai racconti tradizionali che riguardano i lupi, dai tre porcellini a Cappuccetto Rosso, e questo offre ai bambini l'occasione per leggerli o rileggerli se già li conoscono. Inoltre l'andamento della storia, con piccole sequenze ripetitive a introdurre ogni nuovo ospite, può offrire spunti di drammatizzazione se la lettura viene fatta ad alta voce dall'adulto a gruppi di bambini. In questo caso si potrà riflettere insieme sul valore dell'unione e della solidarietà (insieme è più facile vincere la paura) e sulla possibilità di modificare relazioni difficili o problematiche spiegando le proprie ragioni e ascoltando quelle degli altri. E meglio se si riesce a farlo con il sorriso.

Geoffroy de Pennart, Il lupo è ritornato!Babalibri, Milano 2017

venerdì 17 agosto 2018

Adalgiso e il mistero del maniero, di Eleonora Bellini



Adalgiso 357, un vecchio signore, abita con il gatto Nobilius nel grande castello già appartenuto ai suoi antenati. Il numero 357 posto dopo il suo nome ricorda la illustre e lunga progenie da cui discende. Oltre al gatto gli fanno compagnia solo le armature dei suoi illustri predecessori e, qualche volta, il postino Pino. Un giorno Adalgiso si accorge di alcune stranezze: ombre che corrono sugli spalti, un disegnino di recente fattura nascosto in un affresco e croste di formaggio abbandonate sul marmo degli scaloni... Riusciranno Adalgiso 357 e Nobilius a scoprire chi si nasconde dietro a questo mistero? Certamente (soprattutto grazie alle brillanti capacita' deduttive del gatto). E ne trarranno una graditissima sorpresa e grandi doni come la scoperta di nuove amicizie e della meravigliosa musica tzigana. 

Temi. Amicizia, solitudine, intelligenza animale, accoglienza, uguaglianza, storie e genti rom e anche un discreto umorismo.

Autrice Eleonora Bellini 

Illustratrice: Claudia Benassi 
Editore: La Ruota 
Collana: Mirtilli 
Data di edizione: 24 luglio 2018 
Pagine: 64 p., ill. , Brossura 
EAN: 9788899660536 
ISBN-13: 9788899660536 
euro 10,00 
Età di lettura: da 8 anni 

venerdì 27 luglio 2018

Leggendo CASA DI BAMBOLA, di Angelo Vecchi


Un saluto, un augurio e un auspicio per la biblioteca pubblica. Questo è il pezzo di Angelo Vecchi, che trascrivo qui, non certo per vanto ma sicura che possa essere una bella, meditativa lettura per tutti.

Protagonista di Casa di bambola, il dramma di Henrik Ibsen, è Nora.
Nora è fervida, gaia, generosa e appassionata, guidata da un profondo e personale senso del dovere e della giustizia a cui rimane fedele al di là delle convenienze e del calcolo immediato. Detesta la meschinità e spera in un «miracolo», in un «prodigio»: la capacità di chi le sta attorno di comprendere e apprezzare le ragioni profonde del suo agire, di vedere al di là di quelle apparenze che spingono il marito a chiamarla con aria di indulgente superiorità «passerotto sventato», «lucherino spendereccio», «strana creaturina» o a sbottare: «sei proprio una donna!»
Il marito di Nora si chiama Torvald Helmer ed è un avvocato in carriera. Dopo una lunga malattia e otto anni di un modesto ménage familiare, alla vigilia di Natale, ha ottenuto la promozione a direttore della banca in cui lavora. Helmer è “risparmioso”, non vuole «sciupar denaro»; è cauto, convinto che «non possiamo poi darci ai lussi»; aborrisce i debiti, «Debiti niente! Prestiti mai!»; è alla ricerca di «una posizione solida e sicura»; è laboriosissimo, tanto da usare la pausa natalizia per avvantaggiarsi nel lavoro, «felice di lavorare giorno e notte»; è molto attento alle «apparenze» legate al suo status e al suo nome. Il suo mondo finisce qui, è racchiuso da questi confini.
La lettura ci conduce per mano sulla strada del pensiero analogico. L’analogia, la scoperta di somiglianze nascoste, sorprendenti perfino bizzarre ha nutrito le radici delle parole e della fantasia, ha accompagnato per millenni il cammino dell’umanità, è stata la solida base della civiltà contadina, ha rappresentato il sale dell’immaginazione dei poeti e dei narratori delle nostre letterature.
Basta poco, un nonnulla, un punto di vista differente, un piccolo particolare rivelatore ed ecco che dentro al disegno di un cappello appare con evidenza cristallina «un boa che digeriva un elefante» o, per dirla con le parole di Giovanni Pascoli, ecco che è possibile parlare «alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle» oppure popolare «l’ombra di fantasmi e il cielo di dèi».
Così mi sono detto: quanto assomiglia il costume di Torval Helmer a quello borgomanerese di qualche decennio fa: una sorta di calvinismo agognino fatto di previdenza e cautela, di laboriosità e accumulazione, sempre preoccupato della reputazione del nome presso la gente, una inquietudine quasi ossessiva che faceva esclamare in endecasillabi al mio poeta di famiglia, nella poesia intitolata “Lesji” (Leggere):

L’è méju léji
un libbru den par denti
ke no lèsjidrégghi
la vitta a la sjénti

Il nome di Nora invece ci conduce, per suono e per analogia, a Eleonora, alla passione, alla generosità alla coerenza con la quale ha condotto questa fondazione per trentotto anni, alla sua pazienza davanti alle piccinerie e grettezze quotidiane, al grande sogno di contribuire con la cultura a un miracolo: la costruzione di un’umanità migliore. E di passione, di coerenza e di pazienza ce n’è voluta assai a considerare quelle che erano le condizioni del nostro borgo all’incirca quaranta anni fa. Quel calvinismo agognino infatti aveva ben scarsa considerazione di quella che in senso lato possiamo chiamare la cultura. Certo la scuola era apprezzata ma soprattutto per la capacità di insegnare un mestiere e quindi migliorare le condizioni materiali. Per questo, ancora negli anni Sessanta, ci si accapigliava tra i guelfi sostenitori della necessità d’impiantare un liceo e i ghibellini partigiani dell’istruzione tecnica e professionale. Per il resto, il fabbisogno di cultura era soddisfatto – si fa per dire – da alcuni cinematografi e dalla carnevalata settembrina della sagra dell’uva. Quanto all’arte, alla musica, al teatro, all’editoria, a giornali e riviste, Borgomanero non poteva certo vantare le tradizioni secolari di cittadine simili a lei per dimensione e importanza civile ed economica.
A fecondare questo terreno in gran parte incolto o malcoltivato è venuta la Fondazione, che, con spirito veramente previdente, il suo istitutore, Achille Marazza, volle Casa della cultura. Villa Marazza è diventato il nostro Taj Mahal, un grande tesoro all’interno del quale sono passate e cresciute le generazioni, grazie al quale Borgomanero è cambiata.
Forse del valore di questa istituzione non sempre ci si rende conto e capita di sentire affermazioni azzardate: «Quanto spazio sprecato! Nell’era digitale [meglio sarebbe dire: dell’ignoranza digitale], a che cosa servono tutti questi libri?» Ebbene la risposta cercatela nelle differenze tra il presente e il passato, cercatela nella robusta crescita del livello medio di istruzione della cittadinanza, nello sviluppo di una domanda di cultura più alta e più esigente, cercatela nello sviluppo dell’economia, di nuove professionalità, di un dinamismo che ha consentito a Borgomanero di nuotare nella società liquida e di limitare gli effetti negativi di una grande crisi nella quale siamo tuttora immersi.
Dentro a questo c’è anche il lavoro culturale dei tanti operatori e sostenitori della fondazione, dentro a ciò c’è la passione, la generosità e la pazienza di Eleonora.
Casa di bambola si conclude con l’avvocato Torvald Helmer che rimane solo, seduto su di una seggiola vicino alla porta a guardarsi intorno. Nora se ne va e la porta si chiude dietro di lei. Anche Eleonora se ne va. Torna all’amore delle figlie, ai suoi adorati nipotini, alla lettura e alla scrittura che tanto ama e al suo mondo poetico. Tornerà di quando in quando a specchiarsi nella «parva gemma» della marina di Sapri che custodisce gli echi delle antiche navigazioni e delle leggende che non hanno tempo.
A Eleonora, un caldo e riconoscente grazie nella certezza che una parte di lei rimarrà qui per sempre.

Angelo Vecchi, Borgomanero, 25 luglio 2018

lunedì 23 luglio 2018

Voci di donne in versi: Maria Lenti e Barbara Pumhösel

Mettiloro

Esistono ancora i mettiloro?
mi chiede un bambino sgranata la parola dalla TV
(un programma d'arte, penso, su un quadro del passato
vero quell'oro).

No, rispondo. Invece,sì,
gli incensatori di parole
i battitori cottimisti mani spellate
i dispensatori di lodi a piena voce
                        s'ignorano i motivi
gli urlanti i declamanti gli osannanti i titolanti
i timpani-rompenti
i debordanti oltre lo schermo
gli scriventi quotidiane righe su più pagine

non durerà quest'oro.
Quello, invece, splende ancora,
lo rincuoro.

(Maria Lenti in Ai piedi del faro, La vita felice 2016)


ai primi numeri, in memoriam

il fuoco è nemico da sempre
della carta, ma rende
più dura l'argilla, sembrano
eterne le tavolette, eterni i numeri
i segni incisi d'autunno
cinquemila anni orsono
contano tori, misure di grano
conche d'olio, raccontano
un'abbondanza passata a ogni
nuovo futuro che si presenta

si presentava - fino a oggi -
ci voleva una guerra moderna
per distruggerle insieme a vite
a noi per sempre sconosciute

(Barbara Pumhösel in Prugni, Cosmo Iannone Editore 2008)

Accomunano le poesie di Maria Lenti, scrittrice urbinate, e di Barbara Pumhösel, scrittrice toscana di origine austriaca, la forza dei versi, la profondità e l'originalità dei temi. Lo dimostrano le due poesie che propongo qui a titolo di esempio e che potrebbero ben essere definite anche poesie civili. Toni civili chiari e pacati, affidati all'intelligenza anziché allo strombazzamento.
Molto ricca è la poesia delle due autrici, di temi, di forma e di stile. Scrive Gualtiero De Santi a proposito della Lenti: "La scrittura è uno degli strumenti che possiamo impiegare, giacché in essa, come mostrano i versi di Maria Lenti, vengono messi in causa corpo e mente. Questo con forme e piani definiti, e con l'ingaggio di strutture, materiali espressivi, identità e differenze che competono, nel nostro caso, al lato sperimentale dell'autrice urbinate, che non contrasta tuttavia con il coinvolgimento della biografia..."
Della raccolta di Barbara Pumhösel scrive Maria Grazia Greco:
" [le] sillogi contenute in questa antologia ci introducono nel mondo poetico dell'autrice che si snoda tra un'investigazione del reale nelle sue forme più minute con la presenza, forte, della natura da una parte e, dall'altra parte una capacità di decifrazione delle sfumature spesso impercettibili del mondo umano, i cui segni più ricorrenti sono l'attesa, l'incomunicabilità, il silenzio".

Poesia da leggere e da approfondire, senza dubbio.

(C) Eleonora Bellini

mercoledì 18 luglio 2018

Lungo cammino verso la libertà, di Nelson Mandela

“L'istruzione è il grande motore dello sviluppo personale. È attraverso l'istruzione che la figlia di un contadino può diventare medico, che il figlio di un minatore può diventare dirigente della miniera, che ilfiglio di un bracciante può diventare presidente di una grande nazione.” 


Presidente del Sudafrica dopo le prime elezioni democratiche a suffragio universale del 1994, leader dell'African National Congress, premio Nobel per la pace per la sua attività politica in difesa dei diritti degli africani nel 1993, Mandela è il simbolo della lunga lotta dei neri sudafricani contro l'apartheid, per la libertà e per il riconoscimento dei diritti, umani e politici di ogni uomo, lo schiavo così come il suo persecutore, come ebbe a notare in una memorabile osservazione: “Sapevo che l'oppressore era schiavo quanto l' oppresso, perché chi priva gli altri della libertà è prigioniero dell' odio, è chiuso dietro le sbarre del pregiudizio e della ristrettezza mentale. L' oppressore e l' oppresso sono entrambi derubati della loro umanità. Mandela patì il carcere per 27 lunghi anni, la segregazione, il dolore negli affetti più intimi senza mai perdersi d'animo e percorrendo il lungo cammino della sua vita con coraggio e abnegazione. Oggi ricorrono 100 anni dalla sua nascita e lo ricordiamo come mito, certo, ma soprattutto come uomo: “... lentamente ho capito che non solo non ero un uomo libero, ma non lo erano nemmeno i miei fratelli e sorelle; ho capito che non solo la mia libertà era frustrata, ma anche quella di tutti coloro che condividevano la mia origine. È stato allora che sono entrato nell’African National Congress, e la mia sete di libertà personale si è trasformata nella sete più grande di libertà per la mia gente.”

Nelson Mandela Lungo cammino verso la libertà, Feltrinelli, 2013



mercoledì 20 giugno 2018

La sposa Yemenita, graphic novel di Laura Silvia Battaglia e Paola Cannatella

In tredici capitoli (preceduti da un prologo e chiusi da un epilogo) Laura Battaglia racconta con passione ed efficacia un Paese lontano, lo Yemen, del quale abbiamo poche occasioni di avere notizie chiare ed esaustive. L’antico regno della Regina di Saba, con la sua capitale Sana’a, definita da Pasolini “una Venezia selvaggia sulla polvere”, è ora deturpato e distrutto da una guerra interminabile e crudele. 
Le autrici ci raccontano con naturalezza non priva di preoccupazione ma colma di affetto, aspetti poco noti della vita quotidiana yemenita: le celebrazioni nuziali, sfarzose e vissute in rigorosa separazione tra uomini e donne; la vanità e la civetteria delle ragazze, celate sotto lo scuro niqab in pubblico, ma pronte ad abbigliamenti moderni e seducenti in privato; il traffico di minorenni spregiudicatamente impiegati nello spaccio della droga più comune, il qat; le innocenti vitteme dei droni delle nostre forze alleate; gli scellerati attacchi kamikaze; la profonda cultura, la saggezza, l'acume e la tolleranza religiosa dello sceicco Hassan Abdullah, attraverso il quale si svela il vero Islam, fraterno e pietoso, che è poi quello della maggioranza dei suoi più autentici fedeli.
La graphic novel racconta con estrema efficacia, spiccato stile giornalistico e la forza che deriva dagli eventi vissuti in prima persona lo Yemen e il suo popolo allo stesso modo di come potrebbe farlo un saggio, ma con linguaggio - testo e immagini - alla portata di tutti.  
A. S. Battaglia/ P. Cannatella, La sposa Yemenita, Becco Giallo 2017



lunedì 18 giugno 2018

Le ricette della signora Tokue, di Durian Sukegawa

Fino al 1996 la legge giapponese costrinse chi era stato contagiato dal morbo di Hansen, la lebbra, a vivere segregato. Fin dal 1907, le autorità giapponesi decisero che i lebbrosi non dovessero  circolare liberi e che li si dovesse allontanare sia dai luoghi pubblici che privati, dai templi e dalle strade ma anche dalle famiglie e dalla vista dei sani. Fu creata una rete di sanatori nei quali i malati furono costretti a risiedere per legge, dimenticati dal resto del mondo. Questa prima normativa, che tramutava una malattia in colpa e i malati in colpevoli, fu ribadita nel 1931 e nel 1953. Nel 1959 venne isolata la rifampicina, un antibiotico dagli effetti prodigiosi per debellare, oltre ad altre gravi malattie, anche la lebbra, patologia non ereditaria. I malati giapponesi, però, restarono rinchiusi, muti e invisibili, per altri trentacinque anni. La signora Tokue, protagonista di questo romanzo e del film omonimo, sa preparare deliziosi dorayaki, dolcetti di pan di spagna e confettura di fagioli azuki e la sua arte risolleva le sorti del negozio di Sentaro, che, di malavoglia, lavora in una piccola pasticceria della periferia di Tokyo. Minuta e anziana, abile malgrado le sue mani deformi, dolce e paziente, la signora Tokue conquista il rude Sentaro e le studentesse che frequentano il negozietto. Ma tutto cambia, e in peggio, quando viene alla luce il segreto di Tokue, che deve lasciare il lavoro e tornare al sanatorio. La paura di contrarre una malattia antica, sempre vissuta come maledizione, il pregiudizio e l’ostracismo sociale non piegano la donna, che ha imparato, nei lunghi anni di reclusione ad ascoltare e riflettere, a sentirsi sempre e comunque in relazione con altri viventi e perfino a volgere la sfortuna in qualcosa di positivo. "La notte, basta prestare ascolto al mormorio delle stelle per sentire lo scorrere eterno del tempo. Noi siamo nati per guardare e ascoltare il mondo. E il mondo non desidera altro. Perciò, anche se non potevo diventare insegnante o lavorare, il mio essere venuta al mondo aveva un senso".
 Durian Sukegawa, Le ricette della signora Tokue, Einaudi 2018, traduzione di Laura Testaverde.

domenica 10 giugno 2018

Clandestino. Graphic novel di Eoin Colfer e Andrew Donkin, illustrata da Giovanni Rigano


Ebo ha dodici anni e vive in un villaggio del Niger con uno zio ubriacone, il solo familiare rimasto con lui: il fratello maggiore, Kwame, è partito all'improvviso alla volta dell'Europa per raggiungere Sisi, la sorella della quale non hanno più notizie. Ebo parte di notte, sperando di poter raggiungere Kwame prima che quest'ultimo intraprenda la traversata del deserto. Già, perché "per arrivare in Europa, bisogna attraversare due deserti, uno di sabbia e uno di acqua". Ad Agadaz il bambino si guadagna da vivere con piccoli lavori e cantando meravigliosamente. Proprio in occasione di un matrimonio a cui è invitato come cantante, Ebo ritrova il fratello. Insieme partono per un viaggio che sarà difficilissimo, duro e drammatico molto più di quanto avessero immaginato nel loro sogno europeo. Lo sbarco in Sicilia, come naufrago esausto e impaurito, gli aprirà non una nuova patria, ma una prigione, il centro d'accoglienza. Attraverso la rete metallica il bambino ogni giorno guarda il mare e pensa a tutti coloro che riusciranno a toccare terra, ma anche ai tanti che nel mare profondo sono rimasti. 
La storia del viaggio di Ebo "è un'opera di fantasia, ma gli elementi che la compongono sono tutti veri", avvertono gli autori. "Speriamo che Clandestino raggiunga i lettori di tutto il mondo, speriamo che abbiano cura verso i personaggi, una cura che può tradursi in preoccupazione reale per gli immigrati" ha affermato Colfer. 
Il viaggio è raccontato e visto dal punto di vista di un bambino, perciò non sarà difficile ai suoi coetanei identificarsi in lui e agli adulti provare quel sentimento di solidarietà che la cronaca recente potrebbe farci temere universalmente spento.

E. Colfer / A. Donkin, Clandestino, illustrato da Giovanni Rigano e tradotto da Tommaso Varvello, Mondadori 2017.

mercoledì 6 giugno 2018

Ranocchio salva Tokyo, di Murakami Haruki

Ranocchio salva Tokyo è una bella favola, già contenuta nella raccolta di racconti Tutti i figli di Dio danzano, scritta da Murakami dopo un forte terremoto che, nel 1995, danneggiò seriamente la città di Kobe, il luogo della sua infanzia e adolescenza. Qui viene ripubblicata in un volume a sé, arricchito dalle belle illustrazioni di Lorenzo Ceccotti. Il Gran Lombrico, che vive sotto la filiale della Cassa di Credito e Sicurezza, prepara un terremoto devastante, che mieterà numerosissime vittime nella città di Tokyo. Bisogna fermarlo. E chi può combatterlo meglio del signor Katagiri, diligente impiegato della medesima Cassa, insieme a Ranocchio, un gigante apparso improvvisamente una sera nel suo appartamento proprio per condurre questa battaglia?
Il Gran Lombrico vive nelle viscere della terra ed è quasi sempre immerso in lunghi sonni, in un interminabile letargo di anni, ma, quando si sveglia in preda all'ira, può provocare terremoti tremendi. Ranocchio, mediante un'abile dialettica e dotte citazioni, si adopera a convincere Katagiri, bassetto e mingherlino, a sostenerlo nella lotta contro il crudele Lombrico. 
E' difficile per l'ometto accettare. Le obiezioni che oppone sono tante, ma la principale riguarda il fatto che lui, Katagiri, è una persona comune, non esente da difetti. E' solitario e timido, privo di doti artistiche e atletiche: gli può spiegare Ranocchio perché proprio una persona insignificante come lui dovrebbe salvare Tokyo?
Anche e soprattutto le persone comuni possono e devono combattere grandi battaglie, risponde Ranocchio, e, soprattutto, Katagiri tenga presente che "... l'immaginazione è il nostro campo di battaglia. E' lì che vinciamo e siamo sconfitti. Naturalmente siamo tutti esseri limitati, e alla lunga finiremo col perdere. Però, come aveva intuito Ernest Hemingway, il valore definitivo della nostra vita non sarà determinato da come avremo vinto, ma da come avremo perso". 
Una metafora profonda e poetica si sviluppa nelle pagine di questo libro e alimenta, fino all'ultima riga, l'interesse e la curiosità del lettore, indotto alla meditazione su sogni e realtà, su coraggio e paura, sulla fiaba che può celarsi dentro ogni vita, anche la più monotona.


Murakami Haruki, Ranocchio salva Tokyo, Einaudi 2017; illustrazioni di Lorenzo Ceccotti, traduzione di Giorgio Amitrano

lunedì 28 maggio 2018

Italia coloniale: non eravamo poi così buoni

Nelle scorse settimane ho letto, grazie a un felice suggerimento del caso, due libri nei quali, pur in modi molto diversi, si parla dell'avventura coloniale italiana. Il primo è un romanzo, Lo sguardo del leone, di Maaza Mengiste, ambientato ad Addis Abeba tra il 1974 e il 1975. Una grave carestia flagella l'Etiopia e la popolazione, ma soprattutto l'esercito, si ribellano all'imperatore e ai suoi ministri, ritenuti responsabili della fame dei più poveri nel Nord del Paese. Hailè Selassiè, il monarca che discende da Salomone, il Leone di Giuda, l'eroe che combatté le truppe di Mussolini, viene imprigionato e ucciso. Protagonisti del romanzo, dai toni drammatici e profondi, sono Hailu, medico dell'ospedale cittadino e la sua famiglia. Distrutto dal dolore per la malattia della moglie, l'uomo vive con figli, Dawit e Yonas, studente il primo, professore sposato con Sara e padre di una bimba il secondo. Dopo la presa del potere da parte del Derg del crudele Mengistu, la vita della famiglia si ammanta di paura, la sera è annientata dal coprifuoco e costante è la paura della morte. Ogni giorno, infatti, gli oppositori, ma anche la gente comune, vengono imprigionati o uccisi. Anche il nostro Hailu conoscerà l'esperienza del carcere. Questi tragici fatti riaccendono in alcuni, più anziani, e particolarmente nelle donne, l'incubo vissuto al momento dell'occupazione italiana, il terrore della violenza e dell'iprite. Pur secondario all'interno della vicenda romanzesca, tuttavia il riferimento alla dominazione italiana ci conduce a riflettere sui crimini compiuti dai nostri avi, sfatando, come già fece lo storico Angelo Del Boca, lo stereotipo degli "italiani brava gente". 
 
Il secondo libro, del quale ho già brevemente detto su Mangialibri è Invasioni. 
L'autore, Enzo Antonio Cicchino, ricostruisce tutta l'avventura coloniale italiana con lo sguardo di chi oggi, assistendo alle migrazioni dall'Africa verso l'Europa e agli sbarchi sulle spiagge italiane, non può non ripensare a un nostro passato certamente non glorioso. "Stop alle belle abissine, qui si torna a discutere di razza. E la razza nostra, la razza bianca, la razza italica è una razza superiore" così Mussolini ammoniva Badoglio e Graziani in un telegramma (pag. 237). Aberranti concetti la cui eco però anche oggi non è muta. 

Maaza Mengiste, Lo sguardo del leone, Neri Pozza 2010 (trad. di Massimo Ortelio)
Enzo Antonio Cicchino, Invasioni, MnM edizioni 2017

martedì 22 maggio 2018

Ciao, ciao, maestra!

E' tempo di saluti, anche per i più piccini. Alcuni lasciano il nido, altri la scuola dell'infanzia: il loro cammino continua in nuovi luoghi, per nuovi sentieri.
Alle bimbe e ai bimbi, alle maestre e ai (pochi) maestri, ai genitori, sono dedicate queste due filastrocche. 

Ultimo giorno di asilo nido

C'era una volta un bebé
che strillava ué ué,
ero io senza parole,
gatton gattoni e capriole.

Gatton gattoni, poi ho imparato
e sue due piedi mi sono alzato,
mi sono alzato a camminare,
non ero più da solo a giocare.

Il cucchiaino stretto in mano
ho mangiato piano piano,
piano piano ho preso a parlare,
ho imparato perfino a cantare.

Ho imparato così bene
che ora fermo nessuno mi tiene,
care tate, devo andare,
però mai vi potrò scordare.

©Eleonora Bellini


Ultimo giorno di scuola materna

Cara maestra ti prendo per mano,
fuori di classe ti accompagno,
fuori di classe come fiori nel prato
vedo le cose che mi hai insegnato:

fogli di carta da colorare,
storie di voci da ascoltare,
suoni di canti da cantare,
libri di pagine da sfogliare.

Cara maestra io devo andare,
mi aspetta la scuola elementare.
Mi piacerebbe portarti con me
(sono sicuro: piacerebbe anche a te),

io vado da solo perché sono cresciuto
ma qui ti lascio un augurio e un saluto:
che il prossimo anno i nuovi piccini
facciano sempre i bravi bambini.

©Eleonora Bellini



domenica 29 aprile 2018

I gatti di San Pellegrino


Ci sono strade a San Pellegrino
che si passeggiano gradino per gradino,
non ci passano né auto né motori
e i muri fioriscono di fiori.

Di antica nobiltà e gran riserbo
le abitano i gatti di Viterbo.

Al numero uno incontri, tutta sola,
la gatta grigia dagli occhi di viola.


Al numero tre siede serio e fiero
il gatto rosso dall’occhio nero.

Al numero cinque, sul gradino,
sonnecchia un gatto piccolino;
di pelo bianco e naso rosa
di soppiatto osserva ogni cosa.

Sotto la volta, molto elegante
nella pelliccia di nero brillante,
il gatto francese di coda bruna
attende di incontrare Biancaluna.

Sul lato opposto son titolari
di ogni soglia dei numeri pari
i gatti grigi e i gatti tigrati,
vigili, composti, beneducati.

Nella piazzetta, sotto la volta,
aiuola fiorita chiama a raccolta
gattine e gattini di tutti i colori
che annusano erbe, starnutano fiori.

Tra i gerani di via delle Caiole
le giovani gatte prendono il sole.
Son gatte bianche e gatte pezzate,
un poco deste e un poco assonnate.

Aspettano il latte dalla vecchina
che sosta assorta davanti alla porta,
che versa il latte dalla bottiglia
versa e racconta, versa e bisbiglia.

@Eleonora Bellini (da Gatti, progetto parzialmente inedito: filastrocche per albo illustrato e/o illustrabile)

venerdì 27 aprile 2018

Il poeta, di Yi Muniol


Ragazzi, andate, vi prego, a diserbare.
Gramigna, loglio e ogni altro parassita,
estirpatelo e bruciatelo, salvando i cereali.
Chi sarà a ripulire i campi e il mondo?
Chi penserà a far sparire nobili e ricchi?
Niente paura: c'è la Montagna della nona luna.
Saranno quei ragazzi a fare pulizia,
creando un mondo senza nobili né ricchi.

Il romanzo si ispira alla vita del celebre poeta coreano dell'Ottocento, Kim Sakkat, personaggio leggendario ancora molto popolare nel suo Paese. Nella Corea semifeudale del primo Ottocento, il protagonista, nel romanzo Pyongyon, è nipote di un governatore molto vicino al sovrano, ma poi condannato a morte per alto tradimento. Tutta la famiglia sarà punita con l'emarginazione a causa della colpa dell'avo. Così il giovane, precipitato dalla classe sociale più elevata a condizioni infime, cerca di sottrarsi alla sua condizione dedicandosi alla stimata professione di poeta. Il suo percorso poetico sarà lungo a variegato: dall'esercizio della poesia classica in cui eccelle ma che non sempre esprime il suo vero sentire, ai versi taglienti e duri della protesta, alla contemplazione, stupita e solidale, della natura: "L'antica saggezza considera la Natura la forma originaria di ogni conoscenza, bellezza, verità e sacralità, ed egli era arrivato a distinguere tutti questi valori dopo aver deciso di imitare quella saggezza e di trasferirla presto nella sua poesia".
Un percorso di poesia come percorso di vita è quello che si sdipana in questo libro, solo apparentemente lontano da noi nello spazio e nel tempo.


Yi Muniol, Il poeta, Bompiani 2012, traduzione di Maurizio Riotto
 

lunedì 19 marzo 2018

Bianca come la luna, di Hwang Sok-Yong

Bari è nata nella Corea del Nord nelle prima metà degli anni Ottanta. Ultima di sette sorelle, la sua venuta al mondo scatena, come già era avvenuto in occasione della nascita delle altre figlie femmine, l'irritazione del padre. La mamma, allora, in stato confusionale, abbandona la neonata al limitare del bosco. La bambina, però, viene salvata dalla cagna fedele, che la riporta a casa dove la nonna le dà il nome di Bari, mitica e leggendaria sciamana. Ed è proprio la nonna a formare la nipotina, incutendole forza e fiducia nel mondo, nonostante le difficoltà, sempre più estreme, che la famiglia deve affrontare. Con l'avvento della grande carestia che, alla fine degli anni Novanta del Novecento, uccide per fame ampie fasce della popolazione coreana e dopo che il padre, funzionario governativo, cade in disgrazia, i componenti della famigliola si disperdono, nel tentativo di cercare salvezza. Bari, che scopre di avere poteri di chiaroveggenza, rimane sola e parte alla volta dell'Europa su una nave di clandestini. Riesce a superare le tremende difficoltà del viaggio e a sbarcare nel Regno Unito dove, grazie a una serie di incontri fortunati, trova casa e lavoro a Londra. Il lavoro, infatti, le è indispensabile per pagare il debito che ha contratto con i serpenti, i trafficanti di esseri umani. 
Nella Londra delle periferie multietniche Bari pare avere trovato il proprio equilibrio e anche affetti profondi, il vecchio Abdul, pakistano che ha ormai conquistato la cittadinanza inglese, suo nipote Alì, l'amica Luna. Ma la vita, così come l'uragano, le farà conoscere altre perdite, altri dolori. Fino al pianto finale, liberatorio e foriero di nuova speranza.
Hwang Sok-yong, che è stato definito dal giapponese Kenzaburo Oe, premio Nobel per la letteratura 1994, "il miglior ambasciatore della letteratura asiatica", nel suo romanzo dà voce ai dimenticati, agli oppressi, ai diseredati costretti alla fuga e all'esilio, ai migranti d'ogni Paese. A chi non ha parole, coraggio o tempo per raccontare. A chi non dimentica guerre, carestie, sfruttamento e tuttavia segue fedele la strada dell'umile lavoro quotidiano nel Paese che gli ha consentito di sfuggire alla morte ma che spesso non guarda allo straniero con volto accogliente e sereno.
Dopo l'attentato alle torri gemelle, dopo aver perso un nipote illuso dalle sirene del fondamentalismo islamico, il vecchio Abdul osserva: "La guerra che ora è scoppiata è l'inferno frutto dell'arroganza dei forti e della disperazione dei deboli. Ecco: noi siamo deboli e non possiamo nulla, ma dobbiamo continuare a credere che saremo in grado di fare qualcosa per gli altri. Vedrete  che così il futuro del mondo sarà più roseo. Allah ha detto: guardatevi dalle fiamme della rabbia, perché soltanto gli infelici ne verranno inghiottiti". 



Hwang Sok-Yong, Bianca come la luna, Einaudi 2016, traduzione di Andrea De Benedittis

martedì 6 marzo 2018

L'irlandese, di Jo Baker

Samuel Beckett nel 1939 abbandona l'Irlanda, Paese neutrale, per tornare a Parigi dall'amata Suzanne. La capitale francese è fustigata dai venti di guerra, invasa dall'esercito di Hitler, tremante per fame e paura. Samuel è sfiduciato e demoralizzato, scrivere gli è difficile e sono più le parole che cancella di quelle che rimangono sul foglio. Perfino l'essere segretario di Joyce, l'intimità con il grande scrittore e la sua famiglia, gli può donare serenità, anzi: il luminare è lamentoso, irritabile e inquieto. L'occupazione tedesca lo spinge a partire, così come avviene di moltissimi parigini. Se l'unico imperativo in quei giorni tragici pare essere quello di adoperarsi per sopravvivere, a Samuel questo non basta, egli vuole rendersi utile, schierarsi dalla parte giusta, quella della libertà. La cellula di cui fa parte però, dopo poco tempo, viene scoperta ed egli è costretto a fuggire al Sud, con Suzanne, lungo un cammino estenuante e difficile, tra dolori e fame mai saziata. Anche al Sud il giovane Beckett si schiera con la Resistenza, svolgendo qualsiasi compito gli venga richiesto. Dopo la fine della guerra, nella Francia distrutta, Samuel diviene autista di camion della croce Rossa e assiste al ritorno della popolazione, a poco a poco, ai ritmi della vita consueta mentre la ricostruzione, pur a fatica avanza. Scopre che in mezzo alle rovine "vige la gentilezza, vige il senso di umanità". Forse potrà tornare a scrivere, forse un quaderno bianco già lo aspetta. Suzanne gli è ancora accanto e lo farà per tutta la vita.
“Volevo mettermi nei suoi panni, fare quel viaggio con lui, provare alcune delle sue emozioni. Non so se questa sensazione traspiri nella lettura del libro, ma è quello che ho provato scrivendolo” ha affermato in una recente intervista l'autrice del romanzo, il cui titolo ripete il nome di battaglia del partigiano Beckett, e che merita davvero un'attenta lettura.

Jo Baker, L'irlandese, traduzione di Giulia Boringhieri, Einaudi 2017

martedì 6 febbraio 2018

L'ultima notte del Rais, di Yasmina Khadra

"Non mi ha mai amato, il mio popolo; si è limitato a blandirmi per ottenere favori, al pari dei miei cortigiani, dei miei parenti, delle mie puttane. Avrei dovuto capirlo: un sovrano non può avere amici...". Così riflette Gheddafi negli ultimi momenti della sua vita, prima che il suo corpo venga straziato dalla furia dei ribelli. E pensa che avrebbe dovuto capire di più, di se stesso e del popolo; e che avrebbe dovuto dare ascolto a Bassem Tanut, un poeta libico, "una bella persona sincera come la risata di un bambino", che lo aveva ammonito: "Non ti fidare delle acclamazioni del popolo. Il popolo è un canto di sirena. Il suo fervore crea una dipendenza perniciosa. E' il vizio per eccellenza degli ego esaltati, il loro nirvana di una sera e la loro perdizione programmata". Parole dure, ma sincere, parole da amico. Però Gheddafi il dittatore ne era stato ferito, perfino ossessionato, e aveva fatto rinchiudere il poeta in prigione. Ora, negli ultimi momenti della vita, comprende. E' tardi, tuttavia. I ribelli sono arrivati, hanno riconosciuto, nell'uomo nascosto, il dittatore, e si accaniscono su di lui con la ferocia propria dell'esasperazione e del delirio. Dell'odio.
La storia di Gheddafi possiede tutti i connotati della tragedia e nella tragedia Khadra si cala in prima persona, narrando, con pathos e lucidità insieme, i pensieri e le azioni di un uomo che assiste incredulo al proprio fallimento, che rigira tra le mani brandelli di glorie passate e la propria suprema solitudine e che si interroga. Si interroga non solo sui motivi della disfatta ma su di sé, sulla propria vita, che lo ha condotto da un'infanzia povera al potere più alto ed assoluto, al trionfo vorace e crudele che esigeva vittime su vittime per mantenersi alto e saldo, per poi precipitarlo nella presente irrimediabile caduta. Dinanzi alla morte ineluttabile il Rais prende coscienza della "condizione umana" e si trasforma, senza però esprimere né rimpianti né rimorsi, nel giudice di se stesso. "Gheddafi è un personaggio che avrebbe colpito i più grandi scrittori del passato, Tolstoj, Shakespeare, perfino Omero" ebbe a dire Yasmina Khadra in un'intervista apparsa all'uscita del libro nel 2015. La sfida, riuscita, dello scrittore algerino ci dona anche qui, come nei precedenti romanzi, una lettura agile e profonda a un tempo, "uno scavo vertiginoso nel profondo del pensiero di un tiranno feroce e megalomane", per usare le parole del suo editore francese.

Yasmina Khadra (Mohammed Moulessehoul), L'ultima notte del rais, Sellerio 2015

domenica 28 gennaio 2018

Il ritorno di Achille, di Luisa Mattia

Quando alla vecchia scuola media si leggeva per intero, o quasi, l'Iliade, chi non è stato affascinato dalla figura di Achille, forte, bellissimo, quasi divino? Ora è raro che il poema omerico venga affrontato per intero a scuola e le traduzioni classiche o letterarie risultano difficili per le ragazzine e i ragazzini abituati a letture svelte, veloci, nonché a un linguaggio secco ed essenziale. E' importante, allora, che esista questo libro, in cui Luisa Mattia racconta, come un romanzo, l'epica di Achille e la storia di Akel, il suo figlioletto. "Mi è capitato di scoprire che esisteva un piccolo poema che raccontava di come la dea Teti, madre di Achille, non volle rassegnarsi alla morte del figlio e invocò Zeus affinché lo facesse tornare alla vita. E il re degli dei la accontentò... - scrive l'autrice nella Nota conclusiva - Come potevo resistere alla voglia di raccontare?"
Il romanzo inizia con un sogno di Akel, il figlio di Achille, che vive a Skyros con il nonno e la mamma Deidamia. Il bambino sogna grandi imprese: sconfiggere mostri, sgominare malvagi, trionfare di forza, coraggio e intelligenza sono le fantasie costanti dei suoi giorni. Tuttavia un pensiero lo rattrista: perché suo padre non torna? Sarà vero ciò che la mamma e il nonno raccontano di lui descrivendolo come eroe di rara bellezza e di grande valore? O sarà vero ciò che si mormora in città  e ciò che il perfido Aris gli sibila in faccia con cattiveria: tu sei un bastardo!
Un giorno Achille il grande arriva, su una maestosa nave; sta radunando guerrieri per superare l'impasse dei Greci attorno a Troia. Achille non sa che cosa significhi avere un figlio e Akel è stupefatto e affascinato insieme dalla parola che gli sale alle labbra e che finalmente è indirizzata a un essere umano in carne e ossa, non a una sua fantasia: padre. Achille però si fermerà solo pochi giorni che, tuttavia, saranno fondamentali per la formazione del piccolo Akel, anche se una mancata promessa e la partenza furtiva dell'eroe causeranno una profonda delusione al ragazzino. Dopo aver giurato di non credere mai più agli adulti, Akel si impegna per diventare un guerriero forte e indomito, come suo padre, forse di più. Lo ritroveremo dieci anni dopo nascosto nel cavallo di legno che espugnerà Troia, insieme ai più forti e nobili guerrieri greci. Ma Akel, a quel punto, sarà cresciuto non solo di muscoli, ma anche di mente e sentimento: il giorno della vittoria, contempla il trionfo e insieme piange i morti, i troppi morti di quella guerra; i morti tra i vinti e i morti tra i vincitori. Lo invade la nostalgia di casa, della sua isola, di Atina che giocava con lui bambina: "Ora che conosceva la guerra, era il tempo di imparare la pace".

Luisa Mattia, Il ritorno di Achille, Illustrazioni di Rita Petruccioli, Piemme, 2017

martedì 23 gennaio 2018

Campo dei Fiori, di Massimo Bucciantini

 
Questo interessantissimo saggio svela o, meglio, riporta alla memoria la biografia di una statua, biografia tormentata e controversa, entusiastica e libera insieme. "L'erezione a Roma, capitale d'Italia, di una statua a un eretico, a un acerrimo nemico della Chiesa, diventò un gesto di sfida [...] Si trattò di una vera e propria battaglia laica e anticlericale: una delle poche combattute nel nostro Paese, che credo sia giusto non dimenticare" (pag. XX).
E' difficile dire, afferma Bucciantini, quanto di queste vicende di fine Ottocento possa interessare oggi, quando transitiamo in fretta attraverso, vie, piazze, larghi e giardini e prestiamo poca o nessuna attenzione alle statue, ai cippi, alle lapidi che vi sono poste.
Nel 1876 Adriano Colocci e Alfredo Comandini, studenti all'Università La Sapienza, danno vita al Comitato universitario internazionale per il monumento a Giordano Bruno, con l'entusiasmo tipico dei giovani che credono che l'affermazione di una cosa giusta equivalga pressoché a renderla concreta nei fatti e a raggiungerla. L'impresa degli studenti coinvolse molti, soprattutto fuori dall'Università romana, poco favorevole alle idee liberali, e ampie discussioni si svolsero nelle trattorie, prima di tutte quella del Melone e nei caffè accanto al Teatro Valle. Se ufficialmente l'idea del monumento a Bruno venne attribuita in tutto a Pietro Cossa, molto amato dal popolo romano, essa era in realtà figlia di Armand Lévy, repubblicano francese che dedicò la vita alla liberazione dei popoli oppressi e conobbe Mazzini e Garibaldi, Benedetto Cairoli e Felice Cavallotti. A favore del monumento al Nolano fu lanciata una sottoscrizione universitaria internazionale e giunsero aiuti economici da tutta la penisola, da Sondrio a Bergamo, da Milano a Lecce, a Trapani; perfino da Montevideo.
Dinnanzi a questo plebiscito geograficamente diffuso, però, l'amministrazione comunale della Città di Roma, legata al Vaticano, adottò dapprima la politica del silenzio e del rinvio (armi dei pavidi), ma successivamente si pronunciò in modo deciso contro l'ubicazione del monumento a Campo dei Fiori: per motivi urbanistici, si affermò, la piazza non era adatta a nessun tipo di monumento (8 marzo 1880). Fino al 1884 la situazione politica della capitale fu avversa ad ogni idea liberale e l'idea del monumento venne accantonata. Poi la sfida riprese, dal Circolo del Rione di ponte Sant'Angelo venne rilanciata in toto la sottoscrizione iniziata dagli studenti del '76, "per un monumento a Giordano Bruno in Campo dei Fiori". E l'anno successivo fu lanciata una nuova sottoscrizione, internazionale anch'essa. 
Ci sarebbero voluti altri quattro anni prima che il monumento, affidato allo scultore Ettore Ferrari, potesse essere completato. E finalmente il 9 giugno del 1889, una folla, proveniente da ogni parte d'Italia poté partecipare all'inaugurazione non tanto di una statua, ma di un simbolo, elevato quant'altri mai, della libertà di pensiero e di coscienza, posto proprio nella medesima piazza in cui l'eretico martire era stato bruciato vivo il 17 febbraio dell'anno 1600, in pieno Giubileo. Un lungo corteo si snodò da Termini a Campo dei Fiori, una folla immensa partecipò ordinata e commossa alla festa per l'inaugurazione del monumento: "un'onda di popolo che dilaga, calma e solenne", scrisse il Messaggero, "lo spettacolo è superiore a qualsiasi speranza, a qualsiasi aspettativa, a qualsiasi immaginazione, è addirittura sublime". 
Da allora il 17 febbraio è divenuto per molti il giorno in cui si commemora "una vittima dell'intolleranza, l'assertore del diritto dell'uomo di credere a ciò che pensa, non di pensare per forza quello che altri vuole che egli creda" (Luigi Firpo).

Massimo Bucciantini, Campo dei Fiori. Storia di un monumento maledetto, Einaudi 2015.