lunedì 29 dicembre 2008

Brindisi di San Silvestro, di Ariodante Marianni


Stacco l’ultimo foglio del vecchio anno
e a mezzanotte, come gli altri, stappo
la mia bottiglia; ma non lo scaccio
con botti o lancio di cocci
né per speciali favori lo ringrazio:
io brindo a lui che m’ha lasciato indenne.
M’ha lasciato le braccia,
le gambe e i piedi e tutte e due le mani
e, col torso, la testa,
gli occhi, il naso e le orecchie;
e se completo l’inventario, attesto
che, compatibilmente
con i dati anagrafici e lo specchio,
tutto funziona passabilmente.

Quanto all’anno venturo, fisso il nuovo
lunario, e mi attengo a quel detto
di Charlie Chan (era in un vecchio film):
"non pensare al futuro, arriva presto".

giovedì 25 dicembre 2008

Il Natale precristiano di Roberto De Simone

Presso i popoli pagani, già molti secoli prima della venuta di Cristo, la celebrazione del Natale era legata al ciclo delle feste propiziatorie di fine anno, quando un profondo senso di angoscia prendeva gli uomini di fronte allo spettacolo terrificante di una natura che, non generando più i frutti, sembrava destinata a spegnersi per sempre. Com'è noto, infatti, la fase terminale dell'anno solare coincide, a livello astronomico, col sostizio d'inverno in cui la terra raggiunge il punto di massima distanza dal sole. Tuttavia, lentamente, all'angoscia presente subentrava la speranza che sulla terra sarebbe tornato a splendere il sole e la natura si sarebbe aperta a nuova vita. Di qui alcuni rituali, propri dei popoli primitivi, tendenti a simulare il ritorno della luce e del calore, come quello connesso ai cosiddetti ceppi o fuochi di Natale, ancora presente in alcune aree della nostra tradizione popolare, che simboleggia il tentativo di incatenare, per così dire, il sole e costringerlo a un ritorno forzato sulla terra. Più tardi, quando l'antica società matriarcale fu sostituita da quella patriarcale, a un'angoscia collegata alla morte della natura subentrò un'angoscia associata al Tempo storicamente inteso, vissuto come esperienza di sciagure, di guerre, di calamità naturali e imprevedibili.
[...]
A ben considerare, è proprio questo che ancor oggi vuole essere il Natale: una specie di sospensione del quotidiano, quasi un arresto momentaneo del normale ritmo di vita. Le stesse vacanze natalizie, in quanto periodo di vacatio, di non lavoro, vorrebbero significare il desiderio di eliminare tutto il male che l'anno morente ha inevitabilmente prodotto, per cui si instaura una dimensione di ritorno all'initium mundi, prima che la Storia regolasse gli accadimenti umani in un continuo inarrestabile divenire: ultima meta la morte. Questo spiega anche perché le antiche religioni abbiano tutte elaborato il concetto dell'avvento salvifico di un eroe celeste che, sopprimendo la storia e quello che di negativo a essa è legato, inaugura sulla terra un'era di pace e prosperità. Di qui la grande diffusione del mito di un Bambino solare in tutto il mondo antico, dall'Egitto (Horus), alla Grecia (Dioniso), alla Persia (Zoroastro). In particolare ad Alessandria, proprio la notte del 24 dicembre, si svolgeva una festa rituale in cui i sacerdoti, mentre si portava in processione un bambino fasciato raffigurante Horus, figlio divino di Iside, annunciavano al popolo che la Vergine aveva partorito e che il Sole era tornato a splendere nel cielo. Tale rituale si ripeteva, in maniera identica, a distanza di dodici giorni. Si celebrava così, annualmente, il Natale di un Bambino metastorico o mitico, che avrebbe segnato l'inizio di un nuovo ciclo epocale per l'umanità." (R. De Simone, Il presepe popolare napoletano, Einaudi, Editore)

martedì 23 dicembre 2008

Natale, di Salvatore Quasimodo

Natale. Guardo il presepe scolpito, 
dove sono i pastori appena giunti 
alla povera stalla di Betlemme. 
Anche i Re Magi nelle lunghe vesti 
salutano il potente Re del mondo. 
Pace nella finzione e nel silenzio 
delle figure di legno: ecco i vecchi del villaggio 
e la stella che risplende, 
e l'asinello di colore azzurro. 
Pace nel cuore di Cristo in eterno; 
ma non v'è pace nel cuore dell'uomo.
 Anche con Cristo e sono venti secoli 
il fratello si scaglia sul fratello. 
Ma c'è chi ascolta il pianto del bambino 
che morirà poi in croce fra due ladri?



venerdì 19 dicembre 2008

La differenza, di Guido Gozzano (cioè un altro Natale...)

Penso e ripenso: - Che mai pensa l'oca
gracidante alla riva del canale?
Pare felice! Al vespero invernale
protende il collo, giubilando roca.

Salta starnazza si rituffa gioca:
né certo sogna d'essere mortale
né certo sogna il prossimo Natale
né l'armi corruscanti della cuoca.

- O papera, mia candida sorella,
tu insegni che la Morte non esiste:
solo si muore da che s'é pensato.

Ma tu non pensi. La tua sorte è bella!
Ché l'essere cucinato non è triste,
triste è il pensare d'esser cucinato -.

giovedì 18 dicembre 2008

La vigilia di Natale di Giuseppe Gioacchino Belli

Ustacchio, la víggija de Natale
Te mmettete de guardia sur portone
De quarche mmonzignore o cardinale,
E vederai entrà sta prícissione.

Mo entra una cassetta de torrone,
Mo entra un barilozzo de caviale,
Mo er porco, mo er pollastro, mo er cappone,
E mmo er fiasco de vino padronale.

Poi entra er gallinaccio, poi l’abbacchio,
L’oliva dolce, er pesce de Fojjano,
L’ojjio, er tonno, l’anguila de Comacchio.

Insomma, inzino a nnotte, a mmano ammano,
Te llì tt’accorgerai, padron Ustacchio,
Cuant’è ddivoto er popolo romano.

mercoledì 10 dicembre 2008

Quando sono lontano da casa, da LA VALIGIA DI MIO PADRE di Orhan Pamuk

Quando sono lontano da casa e mi è impossibile ritornare nella mia stanza e rimanere solo, l'unica mia consolazione è addormentarmi in pieno giorno. Sì, forse ciò di cui ho bisogno non è la letteratura ma rimanere da solo in una stanza a fantasticare. Allora comincio a sognare cose bellissime su tutti quei luoghi affollati, sulle riunioni familiari e scolastiche, sui pranzi di famiglia nei giorni di festa e sulle persone che vi partecipano. Durante i pranzi dei giorni di festa fantastico su queste persone e le rendo più divertenti. Nella mia immaginazione tutto diventa interessante, attraente e vero. Parto da questo mondo noto e incomincio a immaginarne uno nuovo. Così siamo arrivati al nocciolo della questione. Per scrivere in modo soddisfacente devo annoiarmi per bene e per annoiarmi per bene devo immergermi nella vita.

domenica 16 novembre 2008

Sapere Aude!

L'illuminismo é l'uscita dell' uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità é l'incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessi é questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! - é dunque il motto dell' illuminismo. La pigrizia e la viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo tempo affrancati dall' eterodistinzione (naturaliter maiorennes), tuttavia rimangono volentieri minorenni per l' intera vita; e per cui riesce tanto facile agli altri erigersi a loro tutori. E' tanto comodo essere minorenni! Se ho un libro che pensa per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che decide per me sulla dieta che mi conviene, ecc., io non ho più bisogno di darmi pensiero da me. Purchè io sia in grado di pagare, non ho bisogno di pensare: altri si assumeranno per me questa noiosa occupazione. A far sì che la stragrande maggioranza degli uomini (e con essi tutto il bel sesso) ritenga il passaggio allo stato di maggiorità, oltrechè difficile, anche molto pericoloso, provvedono già quei tutori che si sono assunti con tanta benevolenza l'alta sorveglianza sopra costoro. Dopo averli in un primo tempo istupiditi come fossero animali domestici e aver accuratamente impedito che queste pacifiche creature osassero muovere un passo fuori dal girello da bambini in cui le hanno imprigionate, in un secondo tempo mostrano ad esse il pericolo che le minaccia qualora tentassero di camminare da sole. Ora questo pericolo non é poi così grande come loro si fa credere, poichè a prezzo di qualche caduta essi alla fine imparerebbero a camminare: ma un esempio di questo genere rende comunque paurosi e di solito distoglie la gente da ogni ulteriore tentativo. E' dunque difficile per ogni singolo uomo districarsi dalla minorità che per lui é diventata pressochè una seconda natura. E' giunto perfino ad amarla, e attualmente é davvero incapace di servirsi del suo proprio intelletto, non essendogli mai stato consentito di metterlo alla prova. Regole e formule, questi strumenti meccanici di un uso razionale o piuttosto di un abuso delle sue disposizioni naturali, sono i ceppi di una eterna minorità. Anche chi da essi riuscisse a sciogliersi, non farebbe che un salto malsicuro sia pure sopra i più angusti fossati, poichè non sarebbe allenato a siffatti liberi movimenti. Quindi solo pochi sono riusciti, con l' educazione del proprio spirito, a districarsi dalla minorità e tuttavia a camminare con passo sicuro. Che invece un pubblico si illumini da sè é cosa maggiormente possibile; e anzi, se gli si lascia la libertà, é quasi inevitabile. In tal caso infatti si troveranno sempre, perfino fra i tutori ufficiali della grande folla, alcuni liberi pensatori che, dopo aver scosso da sè il giogo della tutela, diffonderanno il sentimento della stima razionale del proprio valore e della vocazione di ogni uomo a pensare da sè. V'é a riguardo il fenomeno singolare che il pubblico, il quale in un primo tempo é stato posto da costoro sotto quel giogo, li obbliga poi esso stesso a rimanervi, non appena abbiano a ciò istigato quelli tra i suoi tutori che fossero essi stessi incapaci di ogni lume. Seminare pregiudizi é tanto pericoloso, proprio perchè essi finiscono per ricadere sui loro autori o sui predecessori dei loro autori. Perciò il pubblico può giungere al rischiaramento solo lentamente. Forse una rivoluzione potrà sì determinare l'affrancamento da un dispotismo personale e da un'oppressione avida di guadagno o di potere, ma mai una vera riforma del modo di pensare. Al contrario: nuovi pregiudizi serviranno al pari dei vecchi a mettere le dande alla gran folla di coloro che non pensano. Senonché a questo rischiaramento non occorre altro che la libertà ; e precisamente la più inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi. Ma da tutte le parti odo gridare: ma non ragionate! L'ufficiale dice: non ragionate, ma fate esercitazioni militari! L'intendente di finanza: non ragionate, ma pagate! L'ecclesiastico: non ragionate, ma credete. Qui v'è dovunque, limitazione della libertà! Ma quale limitazione è d'ostacolo all'illuminismo, e quale non lo è, anzi lo favorisce? Io rispondo: il pubblico uso della propria ragione deve essere libero in ogni tempo, ed esso solo può attuare il rischiaramento tra gli uomini; invece l’uso privato della ragione può assai di frequente subire strette limitazioni senza che il progresso del rischiaramento ne venga particolarmente ostacolato. Intendo per uso pubblico della propria ragione l'uso che uno ne fa, come studioso, davanti all'intero pubblico dei lettori. Chiamo invece uso privato della ragione quello che ad un uomo è lecito fare in un certo ufficio o funzione civile di cui egli è investito. Ora per molte operazioni che attengono all'interesse della comunità è necessario un certo meccanismo, per cui alcuni membri di essa devono comportarsi in modo puramente passivo, onde mediante un'armonia artificiale il governo induca costoro a concorrere ai fini comuni o almeno a non contrastarli. Qui ovviamente non è consentito ragionare, ma si deve obbedire. Ma in quanto nello stesso tempo questi membri della macchina governativa considerano se stessi come membri di tutta la comunità e anzi della società cosmopolitica, e si trovano quindi nella qualità di studiosi che con gli scritti si rivolgono a un pubblico nel senso proprio della parola, essi possono certamente ragionare senza ledere con ciò l'attività cui sono adibiti come membri parzialmente passivi. Così sarebbe assai pernicioso che un ufficiale, cui fu dato un ordine dal suo superiore, volesse in servizio pubblicamente ragionare sull'opportunità e utilità di questo ordine: egli deve obbedire. Ma è iniquo impedirgli, in qualità di studioso, di fare le sue osservazioni sugli errori commessi nelle operazioni di guerra e di sottoporle al giudizio del suo pubblico. Il cittadino non può rifiutarsi di pagare i tributi che gli sono imposti; e un biasimo inopportuno di tali imposizioni, quando devono essere da lui eseguite, può anzi venir punito come uno scandalo (poichè potrebbe indurre a disubbidienze generali). Tuttavia costui non agisce contro il dovere del cittadino se, come studioso, manifesta apertamente il suo pensiero sulla sconvenienza o anche sull' ingiustizia di queste imposizioni. Così un ecclesiastico é tenuto a insegnare il catechismo agli allievi e alla sua comunità religiosa secondo il credo della Chiesa da cui dipende, perchè a questa condizione egli é stato assunto: ma come studioso egli ha piena libertà e anzi il compito di comunicare al pubblico tutti i pensieri che un esame severo e benintenzionato gli ha suggerito circa i difetti di quel credo, nonchè le sue proposte di riforma della religione e della Chiesa. In ciò non v'é nulla di cui la coscienza possa venir incolpata. Ciò che egli insegna in conseguenza del suo ufficio, come funzionario della Chiesa, egli infatti lo espone come qualcosa intorno a cui non ha libertà di insegnare secondo le sue proprie idee, ma che ha il compito di insegnare secondo le istruzioni e nel nome di un altro. Egli dirà: la nostra Chiesa insegna questo e quello, e queste sono le prove di cui essa si vale. Tutta l' utilità pratica che alla sua comunità religiosa può derivare, egli dunque la ricaverà da principi che egli stesso non sottoscriverebbe con piena convinzione, ma al cui insegnamento può comunque impegnarsi perchè non é affatto impossibile che in essi non si celi qualche velata verità, e in ogni caso, almeno, non si riscontra in essi nulla che contraddica alla religione interior . Se invece credesse di trovarvi qualcosa che vi contraddica, egli non potrebbe esercitare la sua funzione con coscienza; dovrebbe dimettersi. L' uso che un insegnante ufficiale fa della propria ragione davanti alla sua comunità religiosa é dunque solo un uso privato; e ciò perchè quella comunità, per quanto grande sia, é sempre soltanto una riunione domestica; e sotto questo rapporto egli, come prete, non é libero e non può neppure esserlo, poichè esegue un incarico che gli viene da altri. Invece come studioso che parla con gli scritti al pubblico propriamente detto, cioè al mondo, dunque come ecclesiastico nell' uso pubblico della propria ragione, egli gode di una libertà illimitata di valersi della propria ragione e di parlare in persona propria. Che i tutori del popolo (nelle cose spirituali) debbano a loro volta rimanere sempre minorenni, é un' assurdità che tende a perpetuare le assurdità. Ma una società di ecclesiastici ad esempio un' assemblea chiesastica o una venerabile "classe" (come essa si autodefinisce presso gli olandesi), avrebbe forse il diritto di obbligarsi per giuramento a un certo credo religioso immutabile, per esercitare in tal modo sopra ciascuno dei suoi membri, e attraverso essi sul popolo, una tutela continua, e addiritura per rendere eterna questa tutela? Io dico che ciò è affatto impossibile. Un tale contratto, teso a tener lontana l'umanità per sempre da ogni progresso nel rischiaramento, è irrito e nullo in maniera assoluta, foss'anche che a sancirlo siano stati il potere sovrano, le Diete imperiali e i più solenni trattati di pace. Nessuna epoca può collettivamente impegnarsi con giuramento a porre l'epoca successiva in una condizione che la metta nell'impossibilità di estendere le sue conoscenze (soprattutto se tanto necessarie), di liberarsi dagli errori e in generale di progredire nel rischiaramento. Ciò sarebbe un crimine contro la natura umana, la cui originaria destinazione consiste proprio in questo progredire; e quindi le generazioni successive sono perfettamente legittimate a respingere quelle convenzioni come non autorizzate ed empie. La pietra di paragone di tutto ciò che può imporsi come legge a un popolo sta nel quesito se un popolo possa imporre a se stesso una tale legge. Ciò sarebbe sì una cosa possibile, per così dire in attesa di una legge migliore e per un breve tempo determinato, al fine di introdurre un certo ordine, ma purchè nel frattempo si lasci libero ogni cittadino, soprattutto l'uomo di Chiesa, di fare sui difetti dell' istituzione vigente le sue osservazioni pubblicamente, nella sua qualità di studioso, cioè mediante i suoi scritti; e ciò mentre l' ordinamento costituito resterà pur sempre in vigore fino a che le nuvole vedute in questa materia non abbiano raggiunto nel pubblico tanta diffusione e credito che i cittadini, con l' unione dei loro voti (anche se non di tutti), siano in grado di presentare al vostro sovrano una proposta tesa a proteggere quelle comunità che fossero d' accordo per un mutamento in meglio della costituzione religiosa secondo le loro idee, e senza pregiudizio per quelle comunità che invece intendessero rimanere nell'antica costituzione. Ma concertarsi per mantenere in vigore, foss'anche per la sola durata della vita di un uomo, una costituzione religiosa immutabile che nessuno possa pubblicamente porre in dubbio, e con ciò annullare per così dire una fase cronologica del cammino dell' umanità verso il suo miglioramento e rendere questa fase sterile e per ciò stesso forse addirittura dannosa alla posterità, questo non è assolutamente lecito. Un uomo può sì per la propria persona, e anche in tal caso solo per un certo tempo, differire di illuminarsi su ciò che egli stesso è tenuto a sapere; ma rinunciarvi per sé e più ancora per la posterità, significa violare e calpestare i sacri diritti dell' umanità. Ora ciò che neppure un popolo può decidere circa se stesso, lo può ancora meno un monarca circa il popolo, infatti il suo prestigio legislativo si fonda precisamente sul fatto che nella sua volontà egli riassume la volontà generale del popolo. Purchè egli badi che ogni vero o presunto miglioramento non contrasti con l' ordinamento civile, egli non può per il resto che lasciare i suoi sudditi liberi di fare quel che credono necessario per la salvezza della loro anima. Ciò non lo riguarda affatto, mentre quel che lo riguarda è di impedire che l'uno ostacoli con la violenza l'altro nell' attività che costui, con tutti i mezzi che sono in suo potere, esercita in vista dei propri fini e per soddisfare le proprie esigenze. Il monarca reca detrimento alla sua stessa maestà se si immischia in queste cose ritenendo che gli scritti nei quali i suoi sudditi mettono in chiaro le loro idee siano passibili di controllo da parte del governo: sia ch'gli faccia ciò invocando il proprio intervento autocratico ed esponendosi al rimprovero che Caesar non est supra grammaticos, sia, e a maggior ragione, se egli abbassa il suo potere supremo tanto da sostenere il dispotismo spirituale di qualche tiranno nel suo Stato contro tutti gli altri suoi sudditi. Se ora si domanda: viviamo noi attualmente in un' età illuminata? allora la risposta é: no , bensì in un'età di illuminismo. Che nella situazione attuale gli uomini presi in massa siano già in grado o anche solo possano essere posti in grado di valersi sicuramente e bene del loro proprio intelletto nelle cose della religione, senza la guida d'altri, é una condizione da cui siamo ancora molto lontani. Ma che ad essi, adesso, sia comunque aperto il campo per lavorare ed emanciparsi verso tale stato, e che gli ostacoli alla diffusione del generale rischiaramento o all' uscita dalla minorità a loro stessi imputabile a poco a poco diminuiscano, di ciò noi abbiamo invece segni evidenti. A tale riguardo quest'età é l'età dell'illuminismo, o il secolo di Federico. Un principe che non crede indegno di sè dire che considera suo dovere non prescrivere nulla agli uomini nelle cose di religione, ma lasciare loro in ciò piena libertà, e che quindi respinge da sé anche il nome orgoglioso della tolleranza, é egli stesso illuminato e merita dal mondo e dalla posterità riconoscenti di esser lodato come colui che per primo emancipò il genere umano dalla minorità, almeno da parte del governo, e lasciò libero ognuno di valersi della sua propria ragione in tutto ciò che é affare di coscienza. Sotto di lui venerandi ecclesiastici, senza pregiudizio del loro dovere d' ufficio, possono liberamente e pubblicamente, in qualità di studiosi, sottoporre all'esame del mondo i loro giudizi e le loro vedute che qua e là deviano dal credo tradizionale; e tanto più può farlo chiunque non é limitato da un dovere d' ufficio. Questo spirito di libertà si estende anche verso l'esterno, perfino là dove esso deve lottare contro ostacoli esteriori suscitati da un governo che fraintende se stesso. Il governo infatti ha comunque davanti agli occhi un fulgido esempio che mostra che nulla la pace pubblica e la concordia della comunità hanno da temere dalla libertà. Gli uomini si adoperano da sè per uscire a poco a poco dalla barbarie, purchè non si ricorra ad artificiosi strumenti per mantenerli in essa. Ho posto particolarmente nelle cose di religione il punto culminante del rischiaramento, cioè dell' uscita dell'uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso; riguardo alle arti e alle scienze, infatti, i nostri reggitori non hanno alcun interesse a esercitare la tutela sopra i loro sudditi. Inoltre la minorità in cose di religione é fra tutte le forme di minorità la più dannosa ed anche la più umiliante. Ma il modo di pensare di un sovrano che favorisce quel tipo di rischiaramento va ancora oltre, poiché egli vede che perfino nei riguardi della legislazione da lui statuita non si corre pericolo a permettere ai sudditi da fare uso pubblico della loro ragione e di esporre pubblicamente al mondo le loro idee sopra un migliore assetto della legislazione stessa, perfino criticando apertamente quella esistente. Abbiamo in ciò un fulgido esempio, e anche in ciò nessun monarca ha superato quello che noi veneriamo. Ma é pur vero che solo chi, illuminato egli stesso, non ha paura delle ombre e contemporaneamente dispone a garanzia della pubblica pace di un esercito numeroso e ben disciplinato, può enunciare ciò che invece una repubblica non può arrischiarsi a dire: ragionate quanto volete e su tutto ciò che volete; solamente obbedite! Si rivela qui uno strano inatteso corso delle cose umane; come del resto anche in altri casi, a considerare questo corso in grande, quasi tutto in esso appare paradossale. Un maggiore grado di libertà civile sembra favorevole alla libertà dello spirito del popolo, epperò pone ad essa limiti invalicabili; un grado minore di libertà civile, al contrario, offre allo spirito lo spazio per svilupparsi con tutte le sue forze. Se dunque la natura ha sviluppato sotto questo duro involucro il germe di cui essa prende la più tenera cura, cioè la tendenza e vocazione al libero pensiero, questa tendenza e vocazione gradualmente reagisce sul modo di sentire del popolo (per cui questo, a poco a poco, diventa sempre più capace della libertà di agire), e alla fine addirittura sui principi del governo, il quale trova che é nel proprio vantaggio trattare l' uomo, che ormai é più che una macchina, in modo conforme alla di lui dignità.
Immanuel Kant, Che cosa è l'illuminismo?
Königsberg in Prussia, 30 settembre 1784

mercoledì 29 ottobre 2008

Quello era un uomo che la verità...

"Io invece, stamattina, ho creduto fosse sincero: che non sapesse niente di più di quello che ha detto, che non ricordasse..."
"Ti è parso sincero, in confusione, quasi mortificato dal fatto di non poter dire di più, di non poter ricordare meglio... Ma quello era un uomo che la verità non la diceva nemmeno su quello che aveva mangiato a pranzo o sull'orario dei treni. Sistematicamente. E se ha detto quello che ha detto, fingendo come per te, non per me, ha saputo fingere, uno scopo doveva averlo di certo. E sai che ti dico? Molto probabilmente lui non ha visto niente: si è inventata quell'impressione, ha finto di avere quel vago ricordo, in base a un calcolo che avrà immediatamente fatto, di fronte alla ricostruzione che noi stavamo facendo... Poco fa io ti ho detto che stamattina mi era venuto il dubbio che l'avvocato sapesse. Stavo sbagliando: l'avvocato non sapeva niente. Ma appena ha afferrato che, stando alla sinistra di Michelozzi, qualcosa poteva aver notato, ha calcolato che dicendo di avere avuto quell'impressione, di qualcuno che si fosse insinuato tra lui e Michelozzi, quel qualcuno, conoscendolo, avrebbe fatto di tutto per fermare la sua memoria; di tutto, cioè per compensare in favori e denaro il suo silenzio, come tra loro usano..."

Leonardo Sciascia, Todo Modo, 1974, pagg. 83-84.

mercoledì 8 ottobre 2008

Candido di François-Marie Arouet, detto Voltaire

C'era in Vestfalia, nel castello del signor barone di Thunder-ten-tronckh, un giovane al quale la natura aveva conferito i più miti costumi. Il suo aspetto ne rivelava l'anima. Possedeva un giudizio abbastanza retto, unito a una grande semplicità; per ciò, credo, lo chiamavano Candido. I vecchi domestici del castello sospettavano fosse figlio della sorella del signor barone e di un onesto e buon gentiluomo dei pressi che madamigella non volle mai come marito perché non aveva potuto provare che settantun quarti: il resto del suo albero genealogico era stato distrutto dalle ingiurie del tempo.
Il barone era uno dei più potenti signori della Vestfalia, perché il suo castello aveva una porta e delle finestre. Il salone era ornato d'arazzi. Tutti i cani dei suoi cortili, all'occorrenza, potevano formare una muta; i palafrenieri gli facevano da bracchieri, il vicario del villaggio da cappellano. Tutti lo chiamavano monsignore, e ridevano quando raccontava storielle.
La signora baronessa, che pesava circa trecentocinquanta libbre, era grazie a ciò assai considerata, e faceva gli onori di casa con una dignità che la rendeva ancora più rispettabile. La figlia Cunegonda, diciassettenne, aveva un bel colorito, era fresca, grassottella, appetitosa. Il figlio del barone pareva in tutto degno del padre. Il precettore Pangloss era l'oracolo della casa, e il piccolo Candido ne ascoltava le lezioni con tutta la buona fede della sua età e del suo carattere.
Pangloss insegnava la metafisico-teologo-cosmoscemologia. Dimostrava in maniera mirabile che non esiste effetto senza causa, e che, in questo che è il migliore dei mondi possibili, il castello del signor barone era il più bello dei castelli, e la signora baronessa la migliore delle baronesse possibili.
"E' dimostrato" diceva, "che le cose non possono essere altrimenti:
giacché tutto è fatto per un fine, tutto è necessariamente per il miglior fine. Notate che i nasi sono stati fatti per portare occhiali; infatti abbiamo gli occhiali. Le gambe sono visibilmente istituite per essere calzate, e noi abbiamo le brache. Le pietre sono state formate per essere tagliate e farne dei castelli; infatti monsignore ha un bellissimo castello: il massimo barone della provincia dev'essere il meglio alloggiato; e poiché i maiali sono fatti per essere mangiati, noi mangiamo maiale tutto l'anno. Perciò, quanti hanno asserito che tutto va bene hanno detto una sciocchezza: bisognava dire che tutto va per il meglio".
(incipit dell'opera)

sabato 16 agosto 2008

Mia vita

Certo è ch'io nacqui, e con un bel vagito
salutai 'l mondo e il mondo non rispose:
andai a scuola, studiai molte cose
e crebbi un ciuco calzato e vestito.

Una donna mi tolse per marito,
scrissi versi a barella e alcune prose:
del resto, come il ciel di me dispose,
ebbi sete, ebbi sonno, ebbi appetito.

Stetti molti anni fra gl'impieghi assorto,
e fin che non disparver dalla scena
amai gli amici e ne trovai conforto.

Oggi son vecchio e mi strascino appena:
poi fra non molti dì che sarò morto,
dirà il mondo: "Oh reo caso! andiamo a cena".

***

Giuseppe Gioacchino Belli (1791-1863)

venerdì 15 agosto 2008

In Memoriam

Dulce chopo,
dulce chopo,
te has puesto
de oro.
Ayer estabas verde,
un verde loco
de pájaros
gloriosos.
Hoy estás abatido
bajo el cielo de agosto
como yo bajo el cielo
de mi espíritu rojo.
La fragancia cautiva
de tu tronco
vendrá a mi corazón
piadoso.
¡Rudo abuelo del prado!
Nosotros

nos hemos puesto
de oro.
***
Dolce pioppo,
dolce pioppo
sei diventato d'oro.
Ieri eri verde,
un verde folle
di uccelli
gloriosi.
Oggi sei abbattuto
sotto il cielo d'agosto
come me
sotto il cielo
del mio spirito rosso.
La fragranza prigioniera
del tuo tronco
toccherà il mio cuore
pietoso.
Ruvido avo
del prato!
Noi
siamo diventati
d'oro.

Federico Garcia Lorca (1898-1936)

In memoriam è dell'agosto 1920

giovedì 14 agosto 2008

O ciò che sarìa peggio, diventar poeta

"Questi, rispose il curato, non debbono essere libri di cavalleria, ma piuttosto di poesia; ed aprendone uno vide che era la Diana di Giorgio di Montemaggiore. Disse allora (supponendoli tutti dello stesso genere): Questi non meritano, come gli altri, d'esser dati alle fiamme, perché non recano, né recheranno giammai il danno de' libri di cavalleria, ma sono libri da passatempo senza pregiudizio di alcuno. - O signore, soggiunse la nipote, il miglior partito sarà di mandarli come gli altri al fuoco, perché non sarebbe gran meraviglia, che riuscendoci di risanare il mio signor zio dalla malattia cavalleresca, egli si desse a leggere questi libri, e quindi gli venisse il capriccio di farsi pastore, e di andarsene per boschi e per prati cantando e sonando, o, ciò che sarìa peggio, diventar poeta; che, a quanto si dice, è un'altra malattia insanabile e contagiosa. - Questa ragazza parla del miglior senno, disse il curato..." M. de Cervantes Saavedra, DON CHISCIOTTE, cit. cap. VI.

Non passerà dimani senza aver fatto un autodafé

"Che ne sembra a vostra signoria, signor dottore Pietro Perez (così chiamavasi il curato) della disgrazia del mio padrone? Sono già passati sei giorni da che né egli si vede, né il suo ronzino, né la targa, né la lancia, né l'armatura; poveraccia di me! credo fermamente, e com'è certo ch'io sono nata per morire, che questi maledetti libri di cavalleria ch'egli ha, e legge continuamente, l'abbiano fatto uscir di cervello; che ora ben mi sovviene d'averlo inteso dire più volte, parlando fra sé medesimo, che bramava di farsi cavaliere errante e di andare pel mondo in cerca di avventure. Così ne li portasse o Satana, o Barabba cotesti libri, che hanno guasto e sconvolto il più fino cervello che vantar potesse la Mancia. La nipote poi proseguiva dicendo le stesse cose, e aggiungeva di più: Sappia, signor maestro Nicolò (questo era il nome del barbiere) che mille volte è avvenuto al mio signor zio di spendere nella lettura di questi maledetti libri due notti e due giorni continui; a capo dei quali gettavali poi da banda, e impugnata la spada andava a pigliarsela colle pareti finché stanco e spossato, dicea d'avere ammazzato quattro giganti grandi come quattro torri, volea che fosse sangue delle ferite da lui ricevute in battaglia il sudore che lo copriva per la soverchia fatica. Dava allora di piglio ad un gran boccale d'acqua fresca, e se la beveva sin all'ultima goccia, con che risanava e rimettevasi in tranquillità; affermando che quell'acqua era una bevanda preziosissima, dono del savio Eschifo, celebre incantatore e amico suo. Ah! debbo accusare me stessa di tanto male; ché se avessi informate le signorie vostre delle follie del mio signor zio, ci avrebbero posto rimedio prima che fosse giunto a questo termine; e quei suoi scomunicati libri li avrebbero dati alle fiamme: ché molti ne ha certamente degni di essere abbruciati come i libri degli eresiarchi. Sono anch'io dello stesso avviso, soggiunse il curato, e vi giuro in fede mia, che non passerà dimani senza aver fatto un autodafé, dannandogli tutti al fuoco, affinché non diano occasione a qualche altro di fare ciò che il mio povero amico debbe aver fatto.
(Miguel de Cervantes Saavedra, DON CHISCIOTTE DELLA MANCIA, 1605-1615, Cap. V)