giovedì 18 febbraio 2010

Amore e speranza di Gian Luigi e Julia Banfi, recensione di Francesco Omodeo Zorini

Mi è presente la sera alla Triennale di Milano quando nell’aula gremita all’inverosimile, stretto tra due autentici “giganti” di un parterre intellettuale di prim’ordine quali Vincenzo Consolo e il mio concittadino Vittorio Gregotti, ascoltavo Giuliano Banfi presentare con pudore e commozione questo piccolo grande libro. Vinto l’incomprimibile impulso affettivo di rimozione, senza dribblare i sentimenti, annunciava d’essersi risoluto a dare alle stampe il carteggio di intima e trepidante tenerezza, intercorso tra i suoi genitori, Julia Bertolotti e Giangio. Corrispondenza, seppur in senso letterale, mai come in questo caso “d’amorosi sensi” e, insieme pathos di speranza, allorché quest’ultimo si trovava internato a San Vittore e poi al campo di concentramento di Fossoli, nel lasso temporale che, per esattezza, va dal 9 aprile al 4 agosto 1944. Il percorso di morte di Giangio si consumerà nelle tappe della traduzione a Bolzano e definitivamente a Mauthausen, nel cui sottocampo di Gusen II si spegnerà all’alba della liberazione il 10 aprile 1945.
Un epistolario di 87 messaggi: “Toi et moi”. Bigliettini fitti fitti di microscopica grafia filiforme, ripiegati a strisce sottili come appunti proibiti di studenti per il compito in classe. Pizzini clandestini scambiati in manciate di attimi tra ansia e sgomento, negli intermittenti contatti strappati al destino. Epistolario di straordinaria completezza giacché, al momento della spedizione in Germania, a premonizione forse del definitivo congedo, Giangio ha la prontezza di mettere in salvo, facendoli scivolare tra le mani di quell’adorata moglie, di superiore intelligenza e bergmaniano charme, tanto amata fin dall’acerbezza adolescenziale, quelli da lei ricevuti.
Se l’averli conservati si deve al culto di risarcimento dell’assenza, dapprima di Julia e poi della famiglia, ora il renderli pubblici è merito della consapevolezza civile di tradurli in testimonianza da condividere per farne vero riconoscimento e renderne vera riconoscenza a chi ha sofferto l’atrocità estrema per la libertà di noi tutti, in un tempo ormai lontano eppure mai passato. La morte non è non essere più, ma essere ancora, nella memoria e nella considerazione degli altri. Operazione di conoscenza, preziosa e necessaria, che ci sottopone uno spaccato inusuale della cospirazione antifascista, della tragedia della deportazione e dei suoi protagonisti dall’esistenza sinistrata e perigliosa nella Milano occupata dai tedeschi. Quando ci volevano cinquecentomila euri odierni per riscattare la vita di un antifascista destinato all’eliminazione.
Missive d’amore intenso, di passione accesa e di delicata vicendevole cura che, pur nella fuggevole apprensività della penna e nella forzosa cripticità, sono anche d’inestimabile valore culturale e tangenzialmente politico, e non soltanto morale ed affettivo, perché riflettono la comunione d’intenti e di progettualità di due lucidi intellettuali travolti dalla guerra.
L’architetto Gian Luigi Banfi, fratello di Arialdo, è un brillante intellettuale trentaquattrenne affermato professionista, “spavaldo e colto” nel pieno delle facoltà creative. Nel 1932 ha fondato con Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peressutti ed Ernesto Nathan Rogers lo storico studio di architettura urbanistica BBPR. Nel 1942 stringe legami con il partito d’azione e si dedica intensamente all’attività cospirativa nel movimento “Giustizia e Libertà” dei federalisti europei Ernesto Rossi, Altiero Spinelli, Eugenio Colorni, di Riccardo Lombardi, Leopoldo Gasparotto, Brenno Cavallari, Arturo Martinelli, Peppino Pugliesi. Il 21 marzo 1944 è arrestato con Lodo Belgiojoso, l’amico di sempre. Vengono condannati senza processo alla deportazione per spionaggio e distribuzione di stampa clandestina. Lodo, smistato a Gusen I, avrà la fortuna di far ritorno e di darci testimonianza, specie in Notte, nebbia e Frammenti di una vita, insieme ad Aldo Carpi in Diario di Gusen, delle ultime stazioni del calvario di Giangio. Mi sia consentito, a proposito di Belgiojoso, notare come la rivista del nostro Istituto“Ieri Novara oggi” (5/1981) si sia potuta fregiare, a corredo del Diario da un lager di Enrico Piccaluga e Otello Vecchio, dei clichés di suoi disegni originali dal campo di Gusen, della serie di quelli raffigurati in questo libro.
Julia si è laureata in lettere con un taglio estetico figurativo, allieva di Rogers, Antonio Banfi ed Enzo Paci, fenomenologi husserliani. E’ entrata nell’entourage di Gillo Dorfles, Raffaele De Grada, Gio Ponti e Vittorio Sereni. Ha lavorato a “Domus” occupandosi di design, grafica, architettura. Sposatisi nel 1939, l’anno successivo ha messo al mondo Giuliano. La sua poliedrica formazione la porta ad interagire con ottica autonoma in dialettica complementare con Giangio. Un sodalizio di vita e di lavoro traumaticamente interrotto. Da quando Giangio è stato razziato per la Germania ella tiene un diario fino al marzo ’45, qui pubblicato in appendice alle lettere, in cui ce la mette tutta per tenere la barra a dritta.
Grazie alla “puntigliosa sollecitazione di Susanna Sala Massari che ha compiuto un difficile lavoro, non solo di lettura, decrittazione, trascrizione, datazione, ma anche di identificazione di tutte le persone che sono citate in modo assai prudente per il pericolo di intercettazioni” nelle postille alle lettere è ospitata la folta galleria dei personaggi dell’intelligentia, dell’imprenditoria e dell’antifascismo dei ceti emergenti quando Milano era a pieno titolo “capitale della Resistenza”.
Dal parergo di Maria Vittoria Capitanucci si evince infine una puntuale sistematizzazione del contesto specialistico in cui operano i protagonisti. Caratterizzato dalla dimensione civile che si stanno dando questi architetti, dall’apporto collegiale come principio metodologico, dalla matrice razionalistica proiettata alla libertà innovativa fondata sull’analisi del territorio per la pianificazione urbanistica guardando a Le Corbusier. Dall’autonomia espressiva tesa al superamento dei vincoli più schematici delle strettoie della scuola di provenienza alimentata dalla modernità di regime, dal tema pervasivo dell’abitare in cui ci si imbatte nella personalità eclettica di Adriano Olivetti.
Avamposti culturali di una “generazione tradita” che hanno cementato l’antifascismo nel pensiero e nell’azione, proseguendo negli anni della ricostruzione l’impegno ispirato ai Congrés Internationaux d’Architecture Moderne. Ai principi radicati sia nei contenuti sociali e culturali dell’esperienza sia nella memoria storica, per la disarticolazione della città monocentrica e nella contestazione dello “sfruttamento delle aree a vantaggio di pochi e contro il benessere collettivo”. Ma per fare ancora un po’ di quella malvoluta memoria storica, della quale oggi par bellamente si voglia fare a meno, un nome ancora dei sodali di Julissa e Giangio, desidero spendere. Quello dell’architetto Giuseppe Pagano, passato da Villa Triste della Banda Koch di sadici tossici come Valenti e Ferida, anche lui a Fossoli e poi a Mauthausen, dove lascia la vita sotto il bastone di un guardiano il 22 aprile 1945. (Francesco Omodeo Zorini)

GIAN LUIGI e JULIA BANFI, Amore e speranza. Corrispondenza tra Julia e Giangio dal campo di Fossoli aprile-luglio 1944, a cura di Susanna Sala Massari, prefazione di Vittorio Gregotti, postfazione di Maria Vittoria Capitanucci, Milano, Archinto, 2009, pp. 205, € 18.00.

sabato 6 febbraio 2010

Due romanzi sul genocidio degli Armeni

Le rose di Ester di AHNERT MARGARET AJEMIAN e Le stanze di lavanda di ONDINE KHAYAT sono entrambi romanzi che trattano il tema del genocidio degli Armeni, consumatosi in Turchia all'inizio del secolo scorso. Li accomuna anche l'essere narrazioni scritte da figlie e nipoti di donne che, ancora ragazzine, furono testimoni e vittime della persecuzione.
Ester, la protagonista del primo libro, è solo una fanciulla quando è costretta ad intraprendere una lunga marcia di deportazione durante la quale vede morire gran parte della sua famiglia ed innumerevoli suoi correligionari. Costretta a sposare un turco, non si adatta alla nuova vita a cui è costretta e fugge da lui per trovare una nuova patria in America.
Louise, la protagonista de Le stanze di lavanda appartiene ad una facoltosa famiglia armena: il nonno è imprenditore e banchiere, benefattore e fondatore di scuole ed istituzioni di assistenza nella sua città nonché in relazione con influenti membri del parlamento turco. Ma ciò non basta a risparmiare la famiglia dalla persecuzione e dall'eccidio. Solo Louise e la sorellina Marie, pur stremate da una lunga deportazione, sopravvivono. Ma il trauma della persecuzione subita le accompagnerà durante tutto il resto della vita, fino all'età adulta e addirittura alla vecchiaia: orrore perdurante anche nei momenti sereni.
Due letture che si raccomandano, anche perché nel nostro Paese le vicende del popolo Armeno sono ancora poco note. Peccato soltanto che si riscontrino nei libri refusi e défaillances di traduzione più di quanto ci si attenderebbe.

AHNERT MARGARET AJEMIAN, LE ROSE DI ESTER. UNA MADRE RACCONTA IL GENOCIDIO ARMENO, RIZZOLI


ONDINE KHAYAL, LE STANZE DI LAVANDA. IL ROMANZO DI UN'INFANZIA ARMENA, PIEMME.