venerdì 24 dicembre 2010

Natale scettico, di Jules Laforgue

Noël sceptique

Noël! Noël! j'entends les cloches dans la nuit...
et j'ai, sur ces feuillets sans foi, posé ma plume:
ô souvenirs, chantez! tout mon orgueil s'enfuit,
et je me sens repris da ma grande amertume.

Ah! ces voix dans la nuit chantant Noël! Noël!
m'apportent de la nef qui, là-bas, s'illumine,
un si tendre, un si doux reproche maternel
que mon coeur trop gonflé crève dans ma poitrine...

Et j'écoute longtemps les cloches, dans la nuit...
Je suis le paria de la famille humaine,
à qui le vent apporte en son sale réduit
la poignante rumeur d'une fête lointaine.


Natale scettico

Natale! Natale! sento le campane nella notte…
e abbandono la penna su carte senza fede:
cantate, ricordi! tutto il mio orgoglio sfuma,
e mi possiede un’amarezza grande.

Ah! le voci che cantano Natale nella notte
mi portano, dalla chiesa che laggiù s’illumina,
un così tenero e dolce rimprovero materno
che il mio cuore, troppo gonfio, scoppia…

E ascolto a lungo le campane nella notte…
sono il reietto della famiglia umana,
a cui porta il vento nello stambugio chiuso
il brusio struggente della festa lontana.


Jules Laforgue 1860 - 1887
(traduzione di Eleonora Bellini)

mercoledì 1 dicembre 2010

Biblioteche: una storia inquieta, di Matthew Battles

"Conservare e distruggere il sapere da Alessandria a Internet" recita il sottotitolo di questo saggio che, attraverso il racconto delle vicende, casuali o intenzionali, di biblioteche famose, sfata il mito, nel quale ci piace credere, che le biblioteche conservano e custodiscono e documentano tutto o quasi il sapere accumulatosi lungo la storia umana. Se la biblioteca è un mondo, come ugualmente ci piace pensare che sia, come il mondo è imperfetta e caduca: "come un mondo ha le sue mutazioni e le sue stagioni" afferma Battles.
Se la biblioteca di rotoli di papiro, o meglio le due biblioteche quella del Museion e quella minore del tempio di Serapis, di Alessandria furono vittime di più incendi, la biblioteca di Ninive, ricca di 25.000 tavolette di argilla in scrittura cuneiforme, era a prova di incendio e molti suoi testi sono sopravvissuti e si trovano ora al Brithis Museum. Nella Roma antica, l'avvento del cristianesimo come religione dominante inaugurò un tempo oscuro per il sapere e le letterature antiche: i cristiani costruirono per sè un'identità antagonista alla cultura pagana. Tuttavia il sogno della biblioteca universale sopravvisse in Oriente, dove la Siria fu a lungo custode della cultura greca. E splendide biblioteche nacquero anche con il fiorire dell'islam: a Baghdad, Damasco, Gerusalemme. E poi, nel Medio Evo, l'amore per il libro, il bel libro curato ed elegante dei miniatori musulmani, unì Islam ed Europa cristiana: acquistati sui mercati o bottini di guerra, preziosi testi giunsero alle corti europee.
La biblioteca pubblica, poi, rinacque a Firenze nel XV secolo, per opera di Cosimo de' Medici; il suo pubblico era costituito da nobili, ricchi mercanti, clero.
E via via, attraverso i secoli e le storie di libri e biblioteche, ritroviamo note vicende, come quella del cardinal Sirleto, bibliotecario vaticano, che inserì nell'Indice dei libri proibiti l'opera di Lorenazo Valla, perché dimostrava la falsità della donazione di Costantino su cui posava il potere temporale della Chiesa. E sempre a Roma incontriamo Montaigne, che, anch'egli, visitando la Vaticana notò che "... tutti la visitano e portano via quanto desiderano".
Il viaggio giunge fino al Novecento, il secolo a noi vicino e ricorda che esso pure non fu immune da distruzioni di libri e di biblioteche, dai roghi nazisti fino a quelli nei monasteri tibetani messi a ferro e fuoco dai soldati cinesi.
E nell'era digitale quale spazio per le biblioteche?  "... proprio il fatto che le biblioteche abbiano attraversato tante fasi sembra offrire una speranza. Nella sua volontà di custodia dei libri e delle parole che essi contengono, la biblioteca ha affrontato e sottomesso la tecnologia, le forze del cambiamento e spesso l'autorità dei sovrani" ricorda l'autore, con ottimismo.

Matthew Bates, Biblioteche: una storia inquieta, Carocci Editore 2004

venerdì 12 novembre 2010

I terribili segreti di Maxwell Sim, di Jonathan Coe


“Più o meno ogni trenta secondi qualcuno passava davanti alla mia panchina, ma nessuno si degnò di farmi un saluto, o un cenno del capo, o mi lanciò un’occhiata. Anzi, ogni volta che io cercavo di incrociare lo sguardo di un passante, o stavo per dire qualcosa, loro si affrettavano a stornare gli occhi (ma è proprio “stornare” la traduzione italiana appropriata per questo movimento degli occhi? Non sarebbe meglio“distogliere”?), in modo esplicito, e affrettavano il passo. Ci si aspetterebbe che questo valga soprattutto per le donne, e invece no – gli uomini sembravano altrettanto allarmati di fronte alla prospettiva che un estraneo stesse cercando di entrare in contato con loro, anche solo fugacemente. Mi schiarì le idee vedere come anche la piccola scintilla di umanità che stavo cercando di accendere tra noi li gettasse nel panico, li mettesse in fuga” (p. 85). Così Maxwell Sim (“sim come la scheda telefonica” dice quando si presenta) descrive il suo ritorno da Sidney, vivace e colorata, alla cittadina di Watford, nello Hertfordshire britannico, grigia e triste. Maxwell da sei mesi, cioè da quando moglie e figlia lo hanno lasciato, non lavora più; è alla ricerca di una nuova identità, di nuovi rapporti, di nuovi impegni, ma lentamente, con cautela. Il lungo, sconsolato isolamento lo ha provato. Il viaggio a Sidney, alla ricerca di un dialogo con il padre che aveva sempre considerato estraneo, se fallisce su questo piano, gli dona però l’incontro con due figure femminili che, pur non protagoniste, avranno un ruolo fondamentale nello svolgimento delle sue romanzesche vicende: una misteriosa cinese e una fanciulla inglese, come lui. Il ritorno in patria ha in serbo per Max un nuovo lavoro - quello di rappresentante di spazzolini da denti di nuovo tipo, ecologici e indistruttibili - ed un lungo viaggio in auto, verso l’estremo lembo dell’isola. Il viaggio reale procede per Max parallelo ad un altro viaggio nei ricordi, favoriti dal passaggio attraverso i luoghi della sua infanzia, dall’incontro con persone del passato suo o dei suoi familiari. Durante il percorso Maxwell apprende molte cose su di sé e sui suoi cari, a partire dai genitori, e, al termine, in modo inaspettato, giunge a conoscere davvero la propria verità. Una verità sempre negata e rimossa, un sé molto difficile da affrontare, da accettare, ma che, dopo una piena presa di coscienza, potrà finalmente conoscere la felicità. Però il libroha in serbo, dopo questo finale un altro finale, sorprendente. Lo ha spiegato lo stesso autore durante un  incontro con il pubblico al Festival Tuttestorie di Cagliari: Jonathan Coe ha affermato, infatti, di essere stato molto affascinato da Italo Calvino e, in particolare, da "Se una notte d’inverno un viaggiatore", romanzo che ne racchiude altri, infiniti, come un magico scrigno.

 
Jonathan Coe, I terribili segreti di Maxwell Sim, Feltrinelli 2010.

lunedì 1 novembre 2010

Assunta e Alessandro. Storie di formiche, di Alberto Asor Rosa


Il libro inizia con La polvere degli umili, brano tratto da L'ultimo paradosso(Einaudi, 1985). Vi si legge, tra l'altro: "Vorrei sapere invece di loro perché sono stati, visto che, apparentemente, è come non fossero stati. Vorrei sapere se, veramente, ognuno di loro potrebbe considerarsi intercambiabile con altre unità del tutto equivalenti, visto che nessuno di loro ha avuto un carattere tale da salvarlo dall'oblio. Vorrei sapere se la loro indifferenza alla storia - e l'indifferenza della storia nei loro confronti - sono una conseguenza o una causa della loro umiltà, del loro stare al margine delle grandi correnti".
Assunta e Alessandro sono i genitori di Alberto Asor Rosa, che qui ne racconta le vicende, separate prima - con un brevissimo excursus nelle vicende delle rispettive famiglie, un poco più indietro rispetto alle nascite dei protagonisti -; unite, poi, dal matrimonio e dal figlio. L'intento dell'autore è chiaro ed esplicito: raccontare e riascoltare coloro che "ogni giorno rivediamo". Il lettore trova nel libro anche momenti della storia italiana ufficiale, quella a tutti comune, però principalmente riguardo a quella sua dimensione che s'insinua, fa capolino dentro le vicende più intime di individui e famiglie, a scompigliarne le sorti, o ad arricchirle, oppure distrattamente ignorata. Ma soprattutto il lettore di oggi - e spero che ci sia anche qualche giovane lettore fra costoro - potrà ritrovare il senso profondo della dignità dell'esistere, del bene comune, del decoro di vita e di pensiero, della ragionevole speranza nell'avvenire che contraddistinse a lungo il ceto impiegatizio e la piccola borghesia del nostro Paese, e che ora pare essersi perduto. E che poteva dar luogo - anche se per poco - a momenti profondamente felici: "In quel piccolo grappolo d'anni nella Storia ci sono solo loro, Assunta, Alessandro e il piccolo. Assunta, rassettando e rigovernando di stanza in stanza per casa, canta a gola spiegata romanze d'opera [...] Sandro rientra ogni giorno in casa di corsa, come un giovane uomo baldo e ridente, con un fascio sempre nuovo di "giornaletti" sotto il braccio [...] Sono anni solari, accarezzati da un lieve venticello primaverile, sospesi in una specie di limbo dell'anima, in cui si sta benissimo, prima di essere, ahimè, giudicati e mandati. E', insomma, un caso esemplare di diffrazione epocale: il mondo, che lo si sappia o no, corre, proprio allora, verso il peggio, ma loro tre, proprio allora, sono felici".
Asor Rosa aveva già raccontato ne L'alba di un mondo nuovo (2002) la sua storia di fanciullo a Roma, durante gli anni dal 1933 al 1945; un modo per arricchire la memoria con la sostanza delle cose, dei fatti, delle persone: amati e vissuti con lo stupore e l'ingenuità di un bambino che è al centro della narrazione perché è stato appunto al centro della vita di una famiglia e dei suoi luoghi (l'appartamento, il "casermone", il paese della vacanze...). Il libro si concludeva proprio con l'"alba del mondo nuovo" radiosamente presente nel racconto della festa del primo maggio 1945 al Deposito locomotive di Roma Prenestino - il padre dell'autore era ferroviere -, col canto de L'internazionale e poi con il ballo al suono di melodie popolari: un futuro che si apriva con fondali di luce, con capitali di speranza. La storia di Assunta e di Alessandro si chiude, invece, al presente. Il presente di chi, "fermando" nella scrittura un mondo, o meglio un uomo e una donna, afferma una sua piccola, ma fondamentale verità: "ogni giorno li rivediamo".
Un libro da leggere, davvero, questo. E, a chi non l'avesse ancora letto, consigliamo anche il precedente.
Alberto Asor Rosa, L'alba di un mondo nuovo, Einaudi 2002
Alberto Asor Rosa, Assunta e Alessandro, Einaudi 2010.

sabato 30 ottobre 2010

Sarà vero, di Errico Buonanno

Il titolo del libro è "Sarà vero" e il sottotitolo spiega "La menzogna al potere. Falsi, sospetti e bufale che hanno fatto la storia". Tra i casi raccontati dall'autore troviamo mitici personaggi, inquietanti faccende: dagli Illuminati di Baviera ai Savi di Sion, ai Cavalieri del Graal, fino allo smascheramento della creazione di quel Nemico e di quei Complotti che fanno assai comodo a chi vuole destabilizzare ed asservire un popolo.
Il saggio si apre così, con la storia della "Donazione di Costantino": “Vinti i Franchi e gli Alamanni, valicate le Alpi dalla Gallia, sconfitto Massenzio a Ponte Milvio e diventato imperatore, a Flavio Valerio Costantino successe di prendere la lebbra. [...] Benissimo: questo non è mai avvenuto. Non ci fu lebbra, non ci fu miracolo, l’imperatore non pensò mai neppure un momento a cedere al papa le sue terre. Ma è la vicenda che racconta il Constitutum Constantini, e tanto, per ora, potrebbe bastarci. Un falso banale dell’VIII secolo, sfatato da Lorenzo Valla e forse proposto come esercizio retorico, servì da appiglio a ogni pretesa territoriale dei papi. La “Donazione di Costantino” era un fantasma, eppure riuscì in un modo o nell’altro ad attirarsi le ire di Dante e ad incidere sulla Divina Commedia”.
Errico Buonanno, Sarà vero, Einaudi 2009.

lunedì 4 ottobre 2010

Piccoli vagabondi, di Gianni Rodari

A metà strada tra un racconto mensile del Cuore di De Amicis e la sventura di Oliver Twist sta questo romanzo di Gianni Rodari, pubblicato dagli Editori Riuniti nel 1981, anno successivo alla morte dello scrittore. I lettori, sia ragazzi che adulti, dovranno tener presente che Rodari scrisse il racconto a puntate per il settimanale Il pioniere nel dopoguerra, ma, successivamente, non scelse mai di pubblicarlo in volume: troppo realista e deamicisiana la la storia? Troppo dichiarato l'intento morale? Troppo assenti l'arguzia e l'ironia che più tardi avrebbero contraddistinto l'opera rodariana? Non lo sappiamo. Ma possiamo leggere con interesse e attenzione gli eventi dei piccoli vagabondi, protagonisti di una storia fondata su elementi di vita vera e vissuta di quegli anni. Il vagabondaggio e la mendicità infantile erano ancora ben presenti in alcune realtà del nostro Paese. “Cari ragazzi, la differenza fra questa storia e un grande romanzo di avventure sta nel fatto che qui tutto è vero, dalla prima parola all’ultima” spiega ai suoi lettori lo stesso Rodari.
Francesco, Domenico e Anna sono tre bambini duramente provati dalla guerra - uno di loro è stato addirittura mutilato a causa dello scoppio di una bomba nascosta sotto il fienile della sua poverissima casa – i quali vengono affidati ad un gruppetto di girovaghi affinché, chiedendo l'elemosina, possano sostenere se stessi e le proprie famiglie. Si tratta di bambini del basso Lazio; ed affettivamente in quegli anni nei poveri paesi del Frusinate non era insolito che fanciulli venissero venduti o affittati per la mendicità in Italia e all'estero. Durante i vagabondaggi attraverso paesi e città, i tre protagonisti conoscono persone disoneste, ma anche gente comprensiva e generosa. Imparano a crescere, insomma, anche se molto dolorosamente e molto faticosamente. L'edizione del 1981 del romanzo reca in appendice due saggi: il primo è un commento di Lucio Lombardo Radice; il secondo una nota di Marcello Argilli. Lombardo Radice, prendendo lo spunto dalla storia di Rodari, prende in considerazione come la "questione meridionale" sia stata parzialmente occultata agli italiani dalla politica ufficiale - ma poi per fortuna raccontata dal cinema, dall'arte, dalla letteratura - a partire dal periodo immediatamente successivo all'Unità, poi durante il regime fascista, fino al 1980, anno di quel devastante terremoto dell'Irpinia che riportò bruscamente alla luce la discussione sulla storia, la società, le condizioni di vita del Meridione italiano. Marcello Argilli analizza invece la particolarità di questo romanzo, l'unico realista di Rodari, che, come già detto, deve la sua fama a geniali e sagaci altre opere di fantasia e di ironia.
Chi non avesse mai letto il libro e voglia farlo ora può trovarlo nell'edizione Einaudi Ragazzi, purtroppo senza i due saggi in appendice e con l'indicazione di lettura "bambini", che ci pare un po' restrittiva e non proprio adeguata. Il romanzo, proprio per le sue implicazioni realistiche, così lontane dall'esperienza di vita dei ragazzi lettori di oggi, può essere proposto fino a tutta l'età della scuola media - anzi si presta bene a una lettura storico critica proprio in quest'età - seguendo in ciò l'indicazione implicita già nella prima edizione: gli Editori Riuniti lo avevano infatti inserito nella Biblioteca Giovani, nella quale erano presenti romanzi sulla Resistenza e addirittura opere di psicologia per adolescenti.
Qui vediamo entrambe le copertine, quella della nuova e quella della precedente edizione.


Gianni Rodari, Piccoli vagabondi, romanzo con commenti e note di Lucio Lombardo Radice e Marcello Argilli, Editori Riuniti (Biblioteca Giovani 11) 1981
Gianni Rodari, Piccoli vagabondi, Einaudi Ragazzi (La Bibioteca di Gianni Rodari 7), 2010.

domenica 26 settembre 2010

Un sac de billes, di Joseph Joffo


La prima edizione di questo romanzo vero, che ha viaggiato nel mondo attraverso numerose traduzioni, è del 1973. Anche qui, come ne "Il giorno che cambiò la mia vita" che abbiamo segnalato qualche giorno fa, c'è la storia di un bimbo. E' Joseph, figlio di ebrei russi fuggiti alle persecuzioni dello zar, e vive a Parigi, rue de Clignancourt, XVIII arrondissement. Ama i giochi per strada con il fratello, anche se questi lo vince sempre al gioco delle biglie; ama le serate in famiglia e le storie avventurose della vita del babbo; non ama troppo la scuola, ma la frequenta. Quando un giorno le stelle gialle vengono imposte agli ebrei, quando nel negozio di barbiere del padre e dei fratelli maggiori entrano, anche solo come clienti, le SS, il capofamiglia comprende che si deve fuggire, e, per avere maggiori probabilità di salvezza, fuggire a due a due: prima i fratelli maggiori, poi i due bimbi, poi lui stesso con la moglie. Nel libro seguiremo la storia dei due piccoli ebrei fuggitivi, attraverso la Francia occupata prima, poi nel loro soggiorno nel Midi, controllato da una "leggera" occupazione italiana, infine, dopo gli eventi dell'8 settembre 1943 in Italia, in un sud della Francia pure sottoposto alla dominazione tedesca. Avvenimenti reali che hanno tuttavia il sapore dell'avventura, personaggi amici o minacciosi incontrati sui treni, lungo le strade, nei paesi e nelle campagne e due ragazzini che, nel giorno della Liberazione, si ritrovano uguali negli affetti, cresciuti e maturi nella mente e nel sentimento.
Il romanzo in Italia è pubblicato nella BUR con il titolo "Un sacchetto di biglie"; in Francia da J.C Lattès. Il prezzo è di 7,13 euro per l'edizione italiana; di 5,00 per la francese.

mercoledì 22 settembre 2010

Il giorno che cambiò la mia vita, di Cesare Moisé Finzi

Cesare è un bambino nato nel 1930, un po' gracile e qualche volta pauroso. Vive a Ferrara con i genitori e un fratello. La vita della famiglia è tranquilla ed agiata. Cesare frequenta la scuola, ma ama molto le vacanze, come quelle dell'estate 1938, in montagna, a Folgaria. Proprio lì, una mattina legge sul giornale che è andato ad acquistare per il babbo: INSEGNANTI E STUDENTI EBREI ESCLUSI DALLE SCUOLE GOVERNATIVE E PAREGGIATE. . E' il 3 settembre. Cesare capisce che quella frase riguarda anche lui, che la sua vita cambierà. Così racconta: "A dire il vero non sono mai stato uno scolaro brillante, né ho avuto mai un amore particolare per la scuola, ma veramente non mi sarà più permesso di andarci? Mi si velano gli occhi. Piango? No, forse no, ma quando raggiungo i miei a casa, mi precipito fra le braccia della mamma. I grandi mi si fanno intorno, sbigottiti, frastornati, offesi. Perfino increduli. Leggono e rileggono i titoli, poi tutti gli articoli. Così, papà, che nel maggio 1915 è scappato di casa per arruolarsi nell'esercito italiano e combattere per l'unità d'Italia, non sarebbe più un italiano di tale nome solo perché appartiene a una religione diversa? Cosa c'entra la religione con la cittadinanza?" (p. 27)


Il libro di Cesare Finzi è inserito in una collana per ragazzi dal mitico nome de "Gli anni in tasca" (editore Topipittori di Milano). Ma ne consiglio a tutti la lettura. Non potrà che aiutare a ricordare e molto anche ad adoperarsi affinché mai più un giorno di vacanza divenga per un bambino di otto anni il giorno buio "che cambia la vita".
Una video testimonianza di Cesare Finzi, qui.

lunedì 2 agosto 2010

Non deve accadere, di Anne Holt

"Oggi la morte è l'unica vera notizia per la gente" afferma Joanne, la protagonista del romanzo "Non ricordo chi l'ha detto, ma è vero. La morte è l'eccitazione più estrema, la più esclusiva..."
Qui la morte è delitto, come in ogni giallo. Delitto gratuito, anche. Delitto come antidoto alla noia. E, se Lafcadio ne "I sotterranei del vaticano" commette un assassinio immotivato e gratuito, qui l'assassina elabora e porta a termine addirittura una serie di delitti tanto perfetti che nessuna indagine è in grado di trovare prove tangibili o almeno indizi certi. Così, al contrario di quanto accade di solito, la colpevole, non sappiamo se più intelligente e prudente o più crudele e criminale, rimane libera fino all'ultima pagina. E oltre, perché il finale ci fa temere nuovi crimini e nuove crudeltà. Ci fa tremare dinanzi alla constatazione che la verità è difficile da affermare, talvolta impossibile, e che un efferato colpevole può andare libero e trionfante.
E, infine, per sdrammatizzare un po': a proposito di Jessica Fletcher qualcuno mi ha detto che, considerato che, ovunque ella vada, ci scappa il morto per morte violenta, forse l'assassina è lei stessa. Mah. I colpevoli individuati da Jessica, alla fine confessano tutti quanti. Però: e se un'autore di gialli volesse non solo individuare trame fittizie, ma anche tradurle in realtà?

Anne Holt, "Non deve accadere", Einaudi 2009

domenica 18 luglio 2010

Niccolò Machiavelli, di Lucio Villari


"Il suo tempo è lontano, ma al nostro appartengono molti problemi che Machiavelli ha vissuto e analizzato; vi appartengono per ragioni culturali, stilistiche e psicologiche prima che genericamente storiche o politiche. Machiavelli viene infatti dal centro del Rinascimento italiano ed europeo, ma la sua orbita è irregolare. Percorre le linee estreme del Rinascimento procedendo con un metodo intellettuale che trova riscontro in alcuni pochi compagni di idee. La sua orbita sfiorerà quelle di altri grandi della sua epoca: Francois Rabelais, Francesco Giucciardini, il più lontano pianeta Michel De Montaigne, la magia poetica di Ludovico Ariosto", così introduce il libro Villari. E questo ritratto di Machiavelli è consigliabile per diversi motivi: il linguaggio scorrevole, la trattazione ed il commento delle opere -anche di quelle che i ricordi scolastici ci han fatto considerare "minori" - del Nostro, la narrazione di umanissimi episodi biografici, l'analisi dell'attività diplomatica di Niccolò. Lontano dai banchi di scuola, lontano dalla fretta e dall'ansia per le interrogazioni e le verifiche al quale il suo nome, per i più, rimane legato, Machiavelli ci parla una linguaggio appassionato ed attuale; come in questo passo dei "Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio": - Sono infami e detestabili gli uomini [...] dissipatori de' regni e delle repubbliche, inimici delle virtù e delle lettere e d'ogni altra arte che arrechi utilità e onore all'umana generazione -.

Lucio Villari, Niccolò Machiavelli. Storia di un intellettuale "italiano" in un'Italia dilaniata e divisa, Piemme 2003.

martedì 29 giugno 2010

2022 destinazione Corno d’Africa, di Maurilio Riva (recensione di Francesco Omodeo Zorini)

Maurilio Riva, ci conferma che oggi, quantunque le luci sembrino spente, è ancora più che mai tempo di racconto e di storia. Il passato si può riaprire, sia un passato di famiglia sia il passato dell’umanità, ché, quasi sempre, hanno più di un punto di contatto, o, per meglio dire, tendono a specchiarsi e a chiarirsi l’un l’altro. Sì, si può riaprire il passato, pergamena nella bottiglia; basta stapparla. La vita come acqua di un fiume di presenze riempie ogni vuoto d’insaputo, di non detto, di rimasto in ombra inchiavardato in soffitta o in fondo allo stipo.
La lingua batte dove il dente duole. Noi storici indy-free-lance che ci incaponiamo a far scaturire il racconto dalla storia e la storia dal racconto, da decenni ci misuriamo attorno a questo assunto cruciale. Dice bene Sandro Portelli, quando afferma che “il contrario di un romanzo è solo un romanzo fatto in un altro modo” e che “un romanzo non è necessariamente raccontare una storia inventata”. E, di rimando, si potrebbe aggiungere che chi racconta in cerca di verità sa che la vita non ha né trama né senso e che la storia non è, non è necessariamente racconto.
Rino Riva sembra tenersi sospeso tra i due dettami e in forza di uno stato di neutralità teorica, ma di partecipazione affettiva coinvolta e coinvolgente, riesce a impaginare una narrazione convincente. La colloca in un tempo a venire, sicché aprire il passato fa dischiudere simultaneamente il futuro, e in tal modo par di assaporare, per paradosso, memoria di futuro alimentata da attesa del passato.
Nonno Ri(no?)ri(va?), con accanto la “terza nonna” Graziana sepolto in meditazione e in adorazione del nipote Augusto nella casetta foderata di libri e quadri sul naviglio, consegna post mortem proprio a lui, la missione, a lungo accarezzata, di ripercorrere il viaggio di suo padre Luca, bisnonno di Augusto, compiuto nel 1935, firmaiolo aviere nella guerra coloniale fascista d’Abissinia, insieme ad altri due milioni di connazionali.
Per mezzo e in virtù di una mappa del Corno d’Africa (ramid in lingua Afer radice, culla dell’umanità), da sè medesimo per culto pazientemente cartografata e disegnata, nonno Riri si fa tracciatore di piste, ufficiale di rotta, diviene maestro di transito al pellegrinaggio iniziatico del ventiquattrenne nipote. Missione posticipata in un fantastorico 2022, allorché il novello Telemaco – sulle tracce dei passi perduti del bisavolo quasi a metabolizzarne il lutto e con intenzione di risarcimento scaravoltando lo scopo del viaggio – avrà la stessa età che aveva costui nell’intraprendere l’avventura di Faccetta nera.
Granbel modo di fare Storia e insieme racconto a tre livelli di scrittura, sovrimpressi e intrecciati: quello di due-tre vite prima di Luca, alter ego del sergente Luciano Riva, (per puntiglio filologico reso in corsivo ornato nel testo!) portato alla stampa da lettere, cartoline snidate dall’armadio a muro e annotazioni e fotografie – “i dagherrotipi del bisavolo” – scattate ad Harar, Neghelli, Gorrahei, Borana. Un secondo livello di scrittura è quello messo in bocca al migrante del futuro e poi c’è quello dell’autore presente, effettivo protagonista di Destinazione Corno d’Africa nel 2009, quasi reporter affiancato a missioni umanitarie di aiuto alle popolazioni più oppresse del globo. Ad “Acqua per la vita onlus” volontari di Alba, da notare, vanno i diritti d’autore del libro. Suoi gli incontri d’amicizia sul “Bisagno”, cargo che lo conduce a Gibuti, con l’archeologa franco-marocchina esperta di architetture rupestri copte (la cui “avvenente e cordiale giovinezza” dà il la alla stesura del libro) e con il franco-algerino (entrambi sangue misto, alla faccia di chi si ostina a deprecare l’ineluttabilità di una società multiculturale e interetnica) affiliato a Medici senza frontiere. Schizzato carboncino il ritratto di don Lorenzo, prete operaio figlio di un comunista della Falk di Sesto San Giovanni, in missione tra i Galla, nella terra delle “genti del mattino”.
Percorso a ritroso della memoria mentre il bordereau di viaggio si dipana in avanti. Comprimendo e dilatando il tempo si fa esplodere lo spazio, spazio d’esplorazione del continente africano umiliato e offeso, devastato, cancellato, e dei suoi abitanti, e dei loro desolanti problemi di sopravvivenza. Spazio irredento inconciliato inespiato.
Ammirevole coraggio dell’A. d’immaginare il futuro, di trasporlo nella carta, di presumere di volersene fare gli affari. Backstage di un’epoca ventura con un Papa cinese succeduto al Papa Nero, banditore di un Vaticano III all’insegna della rigorosa inflessibile uguaglianza evangelica. Eppure mondo di suprematismo neoliberista feroce, che spregna mostri, ormai in bilico sull’estremo lembo del piano inclinato dello sprofondo, guerre multiple persistenti, accaparrazione e uso criminale delle risorse, cicli naturali ed economici stravolti, espilazione della ricchezza e esasperazione della disuguaglianza, caldere di crateri sociali in eruzione, ma nello stesso tempo universo creolo, metecio, a partire dalla famiglia del protagonista, giacché Augusto Cervantes navigatore, generato da esiliato sudamericano, appartiene già lui alla generazione meticcia dell’agire hic et nunc, nelle cui mani – messaggio di speranza e fiducia – è il futuro. O tragicamente non sarà. Come dire: purché tutto ritorni al futuro.
Una prova, questa di Riva, che oltrepassa la pur notevole precedente ardua impresa di confronto a distanza e di incontro ravvicinato tra il partigiano vergantino sui generis Tito e Fenoglio-Johnny, e che, adottando, percosidire, l’identico schema tripartito, si presenta con maggior leggibilità e attrattività e, a gusto e giudizio di chi scrive, è decisamente meglio riuscita. Ci sono passaggi lungo tragitti memoriali denfatizzati con corollari di deviazioni possibili e mai realizzate, di incontri ed eventi, di strade e soste in luoghi dell’infanzia, in canzoni della giovinezza, giochi di sguardi, di nostalgie e gioie minute, offerti in palmo di mano con cortesia antica, nel cellofan di uno schermo protettivo pedagogico di tenerezza. Il futuro, dicono, è come un neonato.
E’ un libro di poeti e scrittori a fare da contraltare letterario, ci informa il risvolto di copertina. Rimbaud, innanzi tutto: il poeta calatosi due volte all’enfer e per due volte risalito a favoleggiarlo con la propria cetra. I classici sono enzimi che circolano nel nostro sangue e ancora i loro versi risuonano nelle nostre parole e ne animano le immagini mentali. Autodidatta di qualità, Maurilio Riva, non desiste dal disseminare la sua opera di riferimenti didascalici, storici, sociologici, economici, geografici (ab ovo: da Pangea-Panthalassa tutta terra-tutto mare del giorno della creazione…) che gli vengono dalla smisurata passione per le buone letture, perché crescere è leggere, e dalla solida formazione politica e sindacale. Sgrana dati, chiosa, apre parentesi, pone in calce note biografiche.
Ha dell’altro in serbo, ci fa sapere, l’A., e rimaniamo compiaciuti in attesa.
(F.O.Z) 19 maggio 2010

MAURILIO RIVA, 2022 destinazione Corno d’Africa, Milano, Libribianchi, 2010, pp. 338, € 18.00.

mercoledì 23 giugno 2010

Il ragazzo è impegnato a crescere, di Roberto Denti


Un'infanzia vissuta tra la fine degli anni Venti e quella degli anni Trenta non è molto diversa da un'infanzia vissuta negli anni Cinquanta - fatte salve le differenti condizioni politico sociali dell'Italia e di conseguenza il diverso stato d'animo delle persone nel considerare la propria vita ed il mondo circostante. Me lo ha svelato questo bel libro di Roberto Denti, il quale, oltre che scrittore, è il fondatore della Libreria dei Ragazzi di Milano, un punto di riferimento sicuro per tutti coloro che si occupano di letture per bambini, ragazzi, adolescenti.
La lettura di questo suo racconto autobiografico sarà bella per gli adulti, ai quali ricorderà la propria infanzia, ma lo sarà ancora di più per i ragazzini, ai quali farà scoprire momenti di vita quotidiana così lontani da sembrar loro perfino avventurosi. Penso di non sbagliare ipotizzando addirittura che in un bambino di oggi la lettura de “Il ragazzo è impegnato a crescere” potrà suscitare gli stessi stati d’animo e lo stesso stupore che suscita la lettura delle avventure di Pinocchio o di quelle di Giamburrasca: innocenza e stupore, marachelle e punizioni, cose dolci e buone come la liquirizia e la marmellata e cose nauseabonde come l’olio di fegato di merluzzo.
E appunto su quest’ultimo eccovi quello che si legge a pag. 14:
- Un ricordo sgradevole dei miei anni di scuola elementare è dovuto al ritorno a casa per il pasto del mezzogiorno, prima del quale dovevo bere un cucchiaio di olio di fegato di merluzzo, una medicina oleosa dal sapore nauseante. L’aveva ordinato il medico perché ero un bambino considerato “linfatico” cioè avevo certe ghiandole del collo che funzionavano male. Versavo dalla bottiglia sempre unta la dose di olio di fegato di merluzzo nel cucchiaio e ingoiavo con grande senso di schifo. Quando il cucchiaio era vuoto, lo infilavo nella cenere del camino e mangiavo due spicchi di mandarino per “pulirmi la bocca”. -


Roberto Denti, Il ragazzo è impegnato a crescere, Edizioni Topipittori 2009, Collana “gli anni in tasca” [la collana,che prende il nome dall'omonimo film di Truffaut, racconta storie vere di bambini e ragazzi attraverso voci adulte che non hanno perso l'incanto], pagg. 103, euro 10,00.

PS: e l’olio di ricino era ancora peggio...

(C)Eleonora Bellini

venerdì 23 aprile 2010

25 aprile , Festa della Liberazione

















25 aprile 2008

Per i sopravvissuti che la notte
rivivono gli incendi dei paesi,
per i fucilati caduti sui monti
o nelle piazze, per gli scampati
nascosti nelle viscere nere dei camini,
per chi il giorno della strage
incontrò una donna e prese
un'altra via - lo ricorda
oggi come miracolo di pianto -
questo è il giorno della festa

(nel tempo dell'uomo, relativo,
per un mattino chi è morto torna vivo,
appare in un corteo, svolta
dietro l'angolo, salta
una transenna, si perde
come il pensiero dentro un'emozione)

"festa d'aprile", passi sulla strada,
musica e bandiere: minoranze
in marcia. Si ode
il battito d'ali della dignità.

Eleonora Bellini
Borgo Ticino, 25 aprile 2008

***

25 aprile 2010

Bandire Bella ciao dal corteo
della festa di Liberazione: questo
ci propone l’arricchito Nord Est
che ignora i suoi suicidi.
Beato chi non vede questo tempo,
le orme dei padri cancellate, l’Italia
triste, le speranze strangolate.

[E come potremmo noi cantare
con il piede padano sopra il cuore?
E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore?]

Della festa d’aprile rimangono
i peschi fioriti nei giardini, il fiore
del taràssaco sul ciglio delle strade.
Ma a Milano non si pianteranno più alberi.

Eleonora Bellini
Borgo Ticino, 22 aprile 2010

martedì 13 aprile 2010

Fleurs d'avril di André Lemoyne

Le bouvreuil a sifflé dans l’aubépine blanche ;
Les ramiers, deux à deux, ont au loin roucoulé,
Et les petits muguets, qui sous bois ont perlé,
Embaument les ravins où bleuit la pervenche.

Sous les vieux hêtres verts, dans un frais demi-jour,
Les heureux de vingt ans, les mains entrelacées,
Echangent, tout rêveurs, des trésors de pensées
Dans un mystérieux et long baiser d’amour.

Les beaux enfants naïfs, trop ingénus encore
Pour comprendre la vie et ses enchantements,
Sont émus en plein cœur de chauds pressentiments,
Comme aux rayons d’avril les fleurs avant d’éclore.

Et l’homme ancien qui songe aux printemps d’autrefois,
Oubliant pour un jour le nombre des années,
écoute la voix d’or des heures fortunées
Et va silencieux en pleurant sous les bois.

lunedì 22 marzo 2010

Lungo messaggio chiuso in bottiglia

Lungo messaggio chiuso in bottiglia
da stappare o da perdere nel mare


Caro ignoto lettore e resistente
ci tocca forse attendere
in colpevole silenzio che trascorra
pure la presente vergogna
e che ancora trionfino le orde
dei barbari - però che non sia offesa
ai criniti nomadi invasori del già morente
romano impero: furono meritevoli spazzini
come le formiche e le iene sui cadaveri -.
Altri e più perfidi sono i nostri barbari.
E’ giusto restare qui ad attendere
che il presente degrado si sfarini,
attendere resistendo in dignità,
lodando la certezza
delle leggi e ribadendo inerme la ragione?

Vide innumerevoli orrori il Novecento
e toccò il fondo: testimoni
uomini e donne tornati al loro nulla.
E al nulla si portarono speranze,
rimasugli lasciandone al futuro.
Noi - i futuri - coltiviamo
capannoni, hangar, centri commerciali.
Al futuro mandiamo polluzioni
(nel senso francese di inquinanti).
Veneriamo
quei beni posseduti ed esibiti
che, marchiando l’uomo,
modellano il suo essere e il suo nulla.
La domenica nei piccoli paesi è usanza
per molti andare a messa. E la sostanza
dell’uso sta tutta nell’andare, infatti
sfilano verso il tempio sfavillanti
automobili di lusso, minacciosi
SUV e poi ne fan ritorno. Processione
di gas per quella santa e salda
e metallica fede esibita come arma
- o scudo. La carne umana, invece,
è debole, precaria,
cresce, ama, gioisce, cede, decade.
Non si lustra con un panno e una pomata.

Stiamo varcando il confine di un inverno
che ha ucciso le mimose, ma fra poco,
sciolta l’ultima tardiva neve,
torneranno le primule e i narcisi.
Spunteranno le più anonime
ed umili erbe nelle crepe
dell’onnipotente asfalto, dell’onnipresente
cemento, e le ostinate foglie
nuove sopra gli alberi
respireranno anche per noi.
Ed è superfluo dire che non torneranno
invece gli uomini e le donne
perdutisi nel nulla, non risorgeranno
poeti e resistenti
(anche solo per loro noi vorremmo
avverarsi la menzogna dei sepolcri squarciati
e della pasqua).
S’annuncia invece
il nuovo conflitto elettorale - quella che era
festa di volontà popolare
ora è conflitto, rantolo di patria sgretolata -.

Chi ci darà soccorso? Forse
dovrà arrivare qualcuno da lontano?
Senza diritti
nei campi del sud si curvano i migranti,
subiscono la stessa violenza delle zolle
che zappavano
gli antichi braccianti venduti ai bastimenti.
Chi più ricorda quel passato di sogni e di miserie?
E chi ne racconta le storie ai suoi bambini?
Chi vede nei nuovi migranti quelle stesse
promesse, quelle stesse mute nostalgie?

Caro ignoto lettore e resistente,
sto esaurendo perfino le domande
e mi congedo:
di questa carta ho fin troppo approfittato.
Se non ti garba, affida la mia lettera,
che invero è più uno sfogo,
al fuoco (ti basta un accendino) o abbandonala
all’acqua (e qui basta un tombino).
Sia chiaro e lieve almeno a te ogni sole.
Vale, amico, nel tuo giorno vale.


21 marzo 2010, giornata mondiale della poesia/ giornata mondiale contro il razzismo

Eleonora Bellini

lunedì 8 marzo 2010

Il gioco delle rondini, di Zeina Abirached

Il gioco delle rondini è un romanzo autobiografico a fumetti ambientato a Beirut, città divisa dalla guerra, nel 1984. Su di un muro si legge: "Mourir, partir, revenir c'est le jeu des hirondelles. Florian". Gli abitanti di un condominio minacciato dal bombardamento si riuniscono tutti nell'appartamento di Zeina, ritenuto il punto più sicuro dell'intero edificio. Ma a casa ci sono solo lei e il fratellino; i genitori sono andati dalla nonna e ora non potranno tornare tanto presto. In una città divisa dalla guerra non conta la distanza, breve, ma l'intesità del fuoco, crudele, e il pericolo per la vita. Nel racconto ci sono anche le cose di tutti i giorni, la verdura preziosa, l'acqua scarsa, i ricordi e le feste di famiglia, la storia di Cyrano che il babbo legge ai figlioletti tra un trasloco e l'altro.

"Il gioco delle rondini. Morire partire tornare" di Zeina Abirached, Ed. Becco Giallo 2009.

giovedì 18 febbraio 2010

Amore e speranza di Gian Luigi e Julia Banfi, recensione di Francesco Omodeo Zorini

Mi è presente la sera alla Triennale di Milano quando nell’aula gremita all’inverosimile, stretto tra due autentici “giganti” di un parterre intellettuale di prim’ordine quali Vincenzo Consolo e il mio concittadino Vittorio Gregotti, ascoltavo Giuliano Banfi presentare con pudore e commozione questo piccolo grande libro. Vinto l’incomprimibile impulso affettivo di rimozione, senza dribblare i sentimenti, annunciava d’essersi risoluto a dare alle stampe il carteggio di intima e trepidante tenerezza, intercorso tra i suoi genitori, Julia Bertolotti e Giangio. Corrispondenza, seppur in senso letterale, mai come in questo caso “d’amorosi sensi” e, insieme pathos di speranza, allorché quest’ultimo si trovava internato a San Vittore e poi al campo di concentramento di Fossoli, nel lasso temporale che, per esattezza, va dal 9 aprile al 4 agosto 1944. Il percorso di morte di Giangio si consumerà nelle tappe della traduzione a Bolzano e definitivamente a Mauthausen, nel cui sottocampo di Gusen II si spegnerà all’alba della liberazione il 10 aprile 1945.
Un epistolario di 87 messaggi: “Toi et moi”. Bigliettini fitti fitti di microscopica grafia filiforme, ripiegati a strisce sottili come appunti proibiti di studenti per il compito in classe. Pizzini clandestini scambiati in manciate di attimi tra ansia e sgomento, negli intermittenti contatti strappati al destino. Epistolario di straordinaria completezza giacché, al momento della spedizione in Germania, a premonizione forse del definitivo congedo, Giangio ha la prontezza di mettere in salvo, facendoli scivolare tra le mani di quell’adorata moglie, di superiore intelligenza e bergmaniano charme, tanto amata fin dall’acerbezza adolescenziale, quelli da lei ricevuti.
Se l’averli conservati si deve al culto di risarcimento dell’assenza, dapprima di Julia e poi della famiglia, ora il renderli pubblici è merito della consapevolezza civile di tradurli in testimonianza da condividere per farne vero riconoscimento e renderne vera riconoscenza a chi ha sofferto l’atrocità estrema per la libertà di noi tutti, in un tempo ormai lontano eppure mai passato. La morte non è non essere più, ma essere ancora, nella memoria e nella considerazione degli altri. Operazione di conoscenza, preziosa e necessaria, che ci sottopone uno spaccato inusuale della cospirazione antifascista, della tragedia della deportazione e dei suoi protagonisti dall’esistenza sinistrata e perigliosa nella Milano occupata dai tedeschi. Quando ci volevano cinquecentomila euri odierni per riscattare la vita di un antifascista destinato all’eliminazione.
Missive d’amore intenso, di passione accesa e di delicata vicendevole cura che, pur nella fuggevole apprensività della penna e nella forzosa cripticità, sono anche d’inestimabile valore culturale e tangenzialmente politico, e non soltanto morale ed affettivo, perché riflettono la comunione d’intenti e di progettualità di due lucidi intellettuali travolti dalla guerra.
L’architetto Gian Luigi Banfi, fratello di Arialdo, è un brillante intellettuale trentaquattrenne affermato professionista, “spavaldo e colto” nel pieno delle facoltà creative. Nel 1932 ha fondato con Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peressutti ed Ernesto Nathan Rogers lo storico studio di architettura urbanistica BBPR. Nel 1942 stringe legami con il partito d’azione e si dedica intensamente all’attività cospirativa nel movimento “Giustizia e Libertà” dei federalisti europei Ernesto Rossi, Altiero Spinelli, Eugenio Colorni, di Riccardo Lombardi, Leopoldo Gasparotto, Brenno Cavallari, Arturo Martinelli, Peppino Pugliesi. Il 21 marzo 1944 è arrestato con Lodo Belgiojoso, l’amico di sempre. Vengono condannati senza processo alla deportazione per spionaggio e distribuzione di stampa clandestina. Lodo, smistato a Gusen I, avrà la fortuna di far ritorno e di darci testimonianza, specie in Notte, nebbia e Frammenti di una vita, insieme ad Aldo Carpi in Diario di Gusen, delle ultime stazioni del calvario di Giangio. Mi sia consentito, a proposito di Belgiojoso, notare come la rivista del nostro Istituto“Ieri Novara oggi” (5/1981) si sia potuta fregiare, a corredo del Diario da un lager di Enrico Piccaluga e Otello Vecchio, dei clichés di suoi disegni originali dal campo di Gusen, della serie di quelli raffigurati in questo libro.
Julia si è laureata in lettere con un taglio estetico figurativo, allieva di Rogers, Antonio Banfi ed Enzo Paci, fenomenologi husserliani. E’ entrata nell’entourage di Gillo Dorfles, Raffaele De Grada, Gio Ponti e Vittorio Sereni. Ha lavorato a “Domus” occupandosi di design, grafica, architettura. Sposatisi nel 1939, l’anno successivo ha messo al mondo Giuliano. La sua poliedrica formazione la porta ad interagire con ottica autonoma in dialettica complementare con Giangio. Un sodalizio di vita e di lavoro traumaticamente interrotto. Da quando Giangio è stato razziato per la Germania ella tiene un diario fino al marzo ’45, qui pubblicato in appendice alle lettere, in cui ce la mette tutta per tenere la barra a dritta.
Grazie alla “puntigliosa sollecitazione di Susanna Sala Massari che ha compiuto un difficile lavoro, non solo di lettura, decrittazione, trascrizione, datazione, ma anche di identificazione di tutte le persone che sono citate in modo assai prudente per il pericolo di intercettazioni” nelle postille alle lettere è ospitata la folta galleria dei personaggi dell’intelligentia, dell’imprenditoria e dell’antifascismo dei ceti emergenti quando Milano era a pieno titolo “capitale della Resistenza”.
Dal parergo di Maria Vittoria Capitanucci si evince infine una puntuale sistematizzazione del contesto specialistico in cui operano i protagonisti. Caratterizzato dalla dimensione civile che si stanno dando questi architetti, dall’apporto collegiale come principio metodologico, dalla matrice razionalistica proiettata alla libertà innovativa fondata sull’analisi del territorio per la pianificazione urbanistica guardando a Le Corbusier. Dall’autonomia espressiva tesa al superamento dei vincoli più schematici delle strettoie della scuola di provenienza alimentata dalla modernità di regime, dal tema pervasivo dell’abitare in cui ci si imbatte nella personalità eclettica di Adriano Olivetti.
Avamposti culturali di una “generazione tradita” che hanno cementato l’antifascismo nel pensiero e nell’azione, proseguendo negli anni della ricostruzione l’impegno ispirato ai Congrés Internationaux d’Architecture Moderne. Ai principi radicati sia nei contenuti sociali e culturali dell’esperienza sia nella memoria storica, per la disarticolazione della città monocentrica e nella contestazione dello “sfruttamento delle aree a vantaggio di pochi e contro il benessere collettivo”. Ma per fare ancora un po’ di quella malvoluta memoria storica, della quale oggi par bellamente si voglia fare a meno, un nome ancora dei sodali di Julissa e Giangio, desidero spendere. Quello dell’architetto Giuseppe Pagano, passato da Villa Triste della Banda Koch di sadici tossici come Valenti e Ferida, anche lui a Fossoli e poi a Mauthausen, dove lascia la vita sotto il bastone di un guardiano il 22 aprile 1945. (Francesco Omodeo Zorini)

GIAN LUIGI e JULIA BANFI, Amore e speranza. Corrispondenza tra Julia e Giangio dal campo di Fossoli aprile-luglio 1944, a cura di Susanna Sala Massari, prefazione di Vittorio Gregotti, postfazione di Maria Vittoria Capitanucci, Milano, Archinto, 2009, pp. 205, € 18.00.

sabato 6 febbraio 2010

Due romanzi sul genocidio degli Armeni

Le rose di Ester di AHNERT MARGARET AJEMIAN e Le stanze di lavanda di ONDINE KHAYAT sono entrambi romanzi che trattano il tema del genocidio degli Armeni, consumatosi in Turchia all'inizio del secolo scorso. Li accomuna anche l'essere narrazioni scritte da figlie e nipoti di donne che, ancora ragazzine, furono testimoni e vittime della persecuzione.
Ester, la protagonista del primo libro, è solo una fanciulla quando è costretta ad intraprendere una lunga marcia di deportazione durante la quale vede morire gran parte della sua famiglia ed innumerevoli suoi correligionari. Costretta a sposare un turco, non si adatta alla nuova vita a cui è costretta e fugge da lui per trovare una nuova patria in America.
Louise, la protagonista de Le stanze di lavanda appartiene ad una facoltosa famiglia armena: il nonno è imprenditore e banchiere, benefattore e fondatore di scuole ed istituzioni di assistenza nella sua città nonché in relazione con influenti membri del parlamento turco. Ma ciò non basta a risparmiare la famiglia dalla persecuzione e dall'eccidio. Solo Louise e la sorellina Marie, pur stremate da una lunga deportazione, sopravvivono. Ma il trauma della persecuzione subita le accompagnerà durante tutto il resto della vita, fino all'età adulta e addirittura alla vecchiaia: orrore perdurante anche nei momenti sereni.
Due letture che si raccomandano, anche perché nel nostro Paese le vicende del popolo Armeno sono ancora poco note. Peccato soltanto che si riscontrino nei libri refusi e défaillances di traduzione più di quanto ci si attenderebbe.

AHNERT MARGARET AJEMIAN, LE ROSE DI ESTER. UNA MADRE RACCONTA IL GENOCIDIO ARMENO, RIZZOLI


ONDINE KHAYAL, LE STANZE DI LAVANDA. IL ROMANZO DI UN'INFANZIA ARMENA, PIEMME.

domenica 10 gennaio 2010

Accabadora, di Michela Murgia

"- Anche io avevo la mia parte da fare, e l'ho fatta.
- E quale parte era?
- L'ultima. Io sono stata l'ultima madre che alcuni hanno visto."
Così Bonaria Urrai, l'accabadora, colei che, in un vilaggio della Sardegna, dà la morte misericordiosa ai malati senza speranza. Lo fa con il loro consenso, talvolta, quando sono in grado di chiedere, e sempre con quello della famiglia. Perché, come per nascere è necessario l'aiuto di qualcuno, anche per morire talvolta è necessaria una mano che aiuti. Un'ultima madre, un'ultima levatrice, così definsce se stessa Bonaria, donna sola. Già anziana adotta una bimba, Maria, la "figlia d'anima", alla quale assicura vitto sufficiente, buona istruzione, affetto riservato ma profondo. Eppure Maria, quando verrà a conoscere il segreto dell'accabadora, non lo accetterà e si allontanerà da lei e dal paese con dura determinazione. La vedremo così istitutrice a Torino, in una casa molto diversa da quelle delle sue origini, alle prese con la difficile educazione di una bimba e di un ragazzo dell'alta borghesia. E lì Maria avrà una caduta, commetterà un errore, grave, tanto da perdere il posto. Il finale del libro ricomporrà, ma solo in parte, fratture ed errori, all'insegna del ritorno da una lontananza che forse non era mai stata.

Michela Murgia, Accabadora, Einaudi Editore 2009

lunedì 4 gennaio 2010

La vita autentica, di Vito Mancuso

Discorso sintetico e chiaro, riferimenti ai grandi pensatori (da Platone a Descartes, a Kant), ma anche a letterati e teologi - minacciato ed offuscato il ricordo di tutti costoro dalle faccende ed abitudini ed incombenze quotidiane per i più tra noi -, interrogativi incalzanti, risposte in assetto di ricerca continua caratterizzano questo nuovo libro di Vito Mancuso. E' noto che un libro di filosofia è difficilmente riassumibile e tanto meno nelle poche righe di un post, tuttavia si può dare, con l'aiuto dell'indice, notizia degli argomenti proposti al lettore: la prima parte tratta de "La vita come libertà", attraverso esame di punti come "contraddizioni bibliche, contraddizioni filosofiche, scienza, principio contraddizione e principio libertà". La seconda parte si intitola "L'autenticità", vi si leggono riflessioni sul sé, a partire dalle neuroscienze trattando poi dell'inautenticità e menzogna, quindi di fedeltà a se stessi e di verità, autenticità, speranza. Il capitolo conclusivo si intitola "Perché la vita autentica" e conclude le riflessioni precedenti all'insegna della "relazione" ("La mia tesi è che la relazione con il mondo sia costitutiva, originaria, essenziale per l'Io, il quale esiste in quanto frutto delle sue relazioni. Ovvero: io=relazione". p. 151). Una frase a p. 170 coinvolge particolarmente il lettore profano, il non filosofo che tuttavia non si vuole sottrarre alla riflessione sui grandi temi: "Per questo la vita autentica è all'insegna del viaggio, dell'uscita da sè verso la realtà, fino a farsi compenetrare totalmente dalla realtà e diventare un autentico frammento di realtà che, come una pietra o come una pianta, esiste senza la minima traccia di menzogna". "Una pietra o una pianta" che dicono di sé il puro sé, vibrano e soffrono e gioiscono (forse) senza necessità di quelle parole che sono spesso così soggette ad essere svendute e deturpate nei loro significati più profondi dagli umani.

(Eleonora Bellini, 4 /01/ 2010)