Questa
importante (e nutrita) raccolta di poesie di Eleonora Bellini ha un
deciso carattere biografico. E questo non perché ella parli di sé –
nulla vi è in tale raccolta di autoreferenziale – ma perché la
molteplicità dei temi affrontati e la passione con cui vengono
trattati lasciano trasparire aspetti di una forte personalità dalla
profonda vita interiore, che non ha paura di misurarsi con gli eventi
più diversi della odierna vicenda storica, non nascondendo di fronte
a quanto avviene il proprio pessimismo per il futuro. Una personalità
insieme forte e dolce, che esterna con pudore (e perciò con
discrezione) sentimenti personali e giudizi sulla situazione della
società, conferendo alla propria scrittura un carattere decisamente
militante.
L’orizzonte che segna i confini entro i quali si
inscrive il racconto esistenziale della Bellini è costituito dalla
percezione degli stretti legami che intercorrono tra i diversi ordini
della realtà. Uomo, animali e natura sono tra loro in un rapporto di
piena reciprocità, che non è fondato soltanto sul comune afflato
vitale, ma che si propone anche come condivisione di gioia e di
dolori, di cocenti delusioni e di attese nutrite di speranza.
L’oscillazione tra questi opposti poli è l’ordito di cui è
intessuta la realtà con le sue strutturali (connaturate)
ambivalenze. Un ordito che rende ragione dei processi di costante
mutamento in corso, i quali affondano le loro radici in una visione
cosmica dai risvolti – si direbbe – persino panteisti. E’ la
natura, nelle sue varie sfaccettature – come ci ricorda Paolo di
Tarso – che soffre come sotto le doglie del parto, a causa delle
permanenti contraddizioni che l’attraversano, e che l’uomo non ha
mancato (e non manca) di accentuare con la sua spregiudicata (e
incosciente) condotta.
Emblematico è in questo senso il piccolo bellissimo
poema “Stanze d’inverno” che dà il titolo all’intera
raccolta, dove alla descrizione di una natura fredda e disadorna si
associano stati d’animo che segnalano lo scorrere veloce del tempo
e invitano a fare memoria della morte, che porta con sé la
cancellazione di ogni possibile forma di comunicazione, aggravata dal
“… ricordo di
coloro/ a cui più nulla possiamo raccontare”
(A pianterreno, p. 13) e dalla considerazione che “muore
con la
persona il
suo pensiero”.
Tutto questo nella “indifferenza beata delle
cose”, che
rimangono apparentemente immutate – dalla targa accanto al
campanello alle luci dirimpetto accese fino al transito lento del
treno – ma che rivelano in realtà una sorta di logorìo, frutto
del venir meno di una relazione che le rende pienamente vive (Ibidem,
p. 14).
Si fa strada, in questo contesto, la richiesta di
rispondere a una domanda ineludibile, che affiora in tutta la sua
drammaticità nell’alternarsi di vicende, nelle quali storia e
natura, tempo e spazio appaiono inequivocabilmente intrecciati in una
intrinseca, dinamica correlazione, in cui non è difficile cogliere
l’intimità segreta della realtà. Alle dinamiche proprie degli
eventi di vita quotidiana – si pensi soltanto al dramma della
malattia fisica e psichica – si accompagna (e con esse interagisce)
la tragedia di fenomeni collettivi, come il moltiplicarsi dei focolai
di guerra, il rifiuto di accogliere gli immigrati che muoiono sui
barconi, lo svilimento della Resistenza patrimonio essenziale della
nostra storia, la violenza esercitata nei confronti dell’ambiente
e, da ultimo, il dilagare recente del virus
che ha annientato (e annienta) milioni di persone nel mondo.
L’attualità di quest’ultimo fenomeno – la
pandemia – che ha fatto irruzione in modo del tutto inaspettato e
sconvolgente “… un
virus, / uno
dei tanti,
/ però ancora
sconosciuto, un imprevisto invisibile / sul
palco, ‘scena aperta’” (Poesia
estremamente sgradevole, p. 109), suscita nell’animo umano le
reazioni più svariate, fa scoprire all’uomo la sua vera natura,
smentendo l’onnipotenza prometeica, frutto di una improvvida
fiducia nella scienza e, ancor più, nella
tecnologia, mettendo a nudo la fragilità e la precarietà della
condizione umana: “… Ciascuno custodisce
in sé / la sua risposta e a tutti è data una certezza: / siamo una
specie sulla terra, ma specie non eterna” (ibidem,
p. 110). Grande è lo sconcerto che questo provoca e che ci porta a
ripensare questioni cruciali come quella del tempo e quella del male.
La prima ci fa toccare con mano che “ il
tempo, / messo da parte l’orologio, resta / un
mistero (Rileggendo
Pinocchio, p. 114); la seconda, quella angosciante del male, ci
ricorda che la sua “extrema ratio”
rimane imperscrutabile, come ci ha detto “un
uomo, solo/ in una notte di pioggia, avvolto /
dall’abbraccio di mirabili colonne che nessun genio /odierno /
saprebbe replicare, sdoganando / tutta la tragedia umana” (Il
tarassico, p. 113).
Non tutto è però negativo. A riscattare una
situazione carica di angoscia vi sono anzitutto gli affetti, collante
di una vita che ritrova passione e calore. Il canto di Eleonora
Bellini si fa qui intenso (e coinvolgente) e diviene eco
significativa di quel intreccio di relazioni cui si è alluso che
segnano la vita dell’universo. A questo suggestivo mondo, che è
costituito dalle varie espressioni dell’amore, sono dedicate
liriche di rara bellezza, tra le quali una in particolare in “Pagine
di diario”, che merita di essere riportata in una parte consistente
per le immagini con cui l’amore viene evocato:
L’amore è nel gioco che incanta,
l’amore è la nonna che canta,
la chioma corvina di mamma,
il cane che abbaia la sera.
L’amore che vive nel sonno
È fasto e teatro di sogni.
L’amore è la legge che apre il
sipario,
l’amore è futuro di luce.
Oltre la soglia è chiaro spiraglio
(Oltre la soglia, p. 24)
E,
accanto all’amore, Eleonora non manca di dare spazio anche al
sentimento religioso. Uno spazio che ha il suo epicentro nel Natale,
dove alla nostalgia per i “Natali antichi”, dove tutto era
ispirato alla semplicità e alla povertà, si accompagna
l’invocazione accorata che il celeste bambino,
“sorriso di mistiche speranze”,
“vessillo in tempi oscuri” (Ventitre, p. 88) ritorni:
“Corri, vieni, ritorna! Luce / nascosta dove sei? /… Corri,
torna, / scendi, accendi, impara / che tra noi ancora scotta / e
brucia, più rovente della fiamma / più infida della brace, la
malinconia” (Uno p. 65).
Qui
il linguaggio della poesia si confonde con quello della mistica (non
sono forse le due esperienze tra loro strettamente legate e
interdipendenti?), assegnando a tutto il cammino di Eleonora, che
percorre pagine di storia, personale, sociale e civile un’ impronta
non passeggera ma aperta, nonostante i segnali in larga misura
contrari, a una speranza che diviene promessa per il futuro.
ELEONORA
BELLINI, Stanze d’inverno e altre poesie,
con una nota di Alfredo Luzi, Book editore 2021