Domenico Defelice, nato nel 1936, ha percorso il secondo Novecento e sta percorrendo questi primi decenni del Duemila affidando la sua voce alla poesia, alla saggistica letteraria, alla riflessione umanistica e storica, come ad una finestra da cui non solo guardare il mondo (e la sua individualità in esso) ma da cui dire, di questo mondo e di questa vita, le mancanze, le perdite, le storture, soprattutto il risvolto di cambiamenti, accaduti ma quasi mai secondo lui in positivo e, in ogni caso, non sospinti da chi dovrebbe, da chi ha la responsabilità della res publica.
E tutto tramite le parole, appunto le parole per comprendere la realtà e che comprendano il sogno di giorni diversi. (Ne dà conto Sandro Gros-Pietro nella articolata, meditata Prefazione, riprendendo e ricamminando la produzione di Domenico Defelice).
Vi è in questo suo Le parole a comprendere il desiderio, profondo come un sogno ad occhi aperti, di vedere finite ingiustizie e ammanchi dovuti all’agire dell’uomo, dell’uomo pubblico, quegli ammanchi che rendono i propri simili infelici oltre l’infelicità assegnata, quasi per una legge senza autore, dalla natura, dalle coordinate dello spazio e del tempo, dalle casualità esistenziali. O da un disegno divino.
E il poeta Domenico Defelice, si chiede però anche quale parte egli abbia nel suo tempo, se abbia ben condotto o meno questa sua parte:
«Cosa ho fatto? / Vi chiederete dopo il mio trapasso. / Niente, né per ricchezza, né per gloria. / Ho scritto centinaia di versi / - questo è vero – e qualche piccola / storia, per diletto; ho sparso pure / quintali di sarcasmo e d’ironia. / Non sono stato integralmente al mondo / per aver amato troppo la giustizia, / battaglia lunga e senza tregua, / vana, come per l’onestà. // Vi chiederete: cosa ha fatto? Nulla. / Me lo son chiesto tante volte anch’io.» (COSA HO FATTO? NULLA, p. 40).
Uomo tra gli uomini, il poeta riconosce nei suoi versi una insufficienza, una insufficienza propria dell’esistere: nascere, crescere, andare, tornare, sperare, pronunciare parole, lavorare, amare, recriminare, riflettere sull’intorno e proporre soluzioni. È il vivere, è l’avere vissuto, anche e certamente dandosi una chance, la probabilità intrinseca alla poesia, alla letteratura.
Forse, almeno a mio parere e mi riferisco alla seconda sezione del libro – Ridere (per non piangere) - , il sarcasmo dovrebbe distinguere tra i soggetti cui è diretto: perché, nella varia umanità di cui facciamo parte, non tutti meritano sarcasmo. Anche tra i politici o chi gestisce la cosa di tutti, bersaglio facile, non c’è una massa informe, ma un insieme di persone: alcune fanno il bene, altre il male, altre sono indifferenti a qualsiasi vento tiri e guardano solo la propria strada.
L’ironia, invece, degli Epigrammi e di Recensioni (terza e quarta parte), sottile, taglia per così dire le ali a qualche personaggio della scena sociale togliendolo dal piedistallo raggiunto e, grazie a questa figura retorica, mettendolo sul piedistallo del ridicolo. «Tutta la tua sostanza è una targhetta / appiccicata sopra il tuo portone; / una carta intestata; un’etichetta / che un giorno finiranno in un bidone. // A che ti giova tanta sicumera? / di te non rimarrà neppur l’alone!». Dedicata A UN BORIOSO, (p. 118): e i boriosi, nel giro vasto della presenza pubblica, sono davvero tanti. (Maria Lenti)
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