Un saluto, un augurio e un auspicio per la biblioteca pubblica. Questo è il pezzo di Angelo Vecchi, che trascrivo qui, non certo per vanto ma sicura che possa essere una bella, meditativa lettura per tutti.
Protagonista di Casa di bambola,
il dramma di Henrik Ibsen, è Nora.
Nora è fervida, gaia, generosa e
appassionata, guidata da un profondo e personale senso del dovere e
della giustizia a cui rimane fedele al di là delle convenienze e del
calcolo immediato. Detesta la meschinità e spera in un «miracolo»,
in un «prodigio»: la capacità di chi le sta attorno di comprendere
e apprezzare le ragioni profonde del suo agire, di vedere al di là
di quelle apparenze che spingono il marito a chiamarla con aria di
indulgente superiorità «passerotto sventato», «lucherino
spendereccio», «strana creaturina» o a sbottare: «sei proprio una
donna!»
Il marito di Nora si chiama Torvald
Helmer ed è un avvocato in carriera. Dopo una lunga malattia e otto
anni di un modesto ménage familiare, alla vigilia di Natale, ha
ottenuto la promozione a direttore della banca in cui lavora. Helmer
è “risparmioso”, non vuole «sciupar denaro»; è cauto,
convinto che «non possiamo poi darci ai lussi»; aborrisce i debiti,
«Debiti niente! Prestiti mai!»; è alla ricerca di «una posizione
solida e sicura»; è laboriosissimo, tanto da usare la pausa
natalizia per avvantaggiarsi nel lavoro, «felice di lavorare giorno
e notte»; è molto attento alle «apparenze» legate al suo status e
al suo nome. Il suo mondo finisce qui, è racchiuso da questi
confini.
La lettura ci conduce per mano sulla
strada del pensiero analogico. L’analogia, la scoperta di
somiglianze nascoste, sorprendenti perfino bizzarre ha nutrito le
radici delle parole e della fantasia, ha accompagnato per millenni il
cammino dell’umanità, è stata la solida base della civiltà
contadina, ha rappresentato il sale dell’immaginazione dei poeti e
dei narratori delle nostre letterature.
Basta poco, un nonnulla, un punto di
vista differente, un piccolo particolare rivelatore ed ecco che
dentro al disegno di un cappello appare con evidenza cristallina «un
boa che digeriva un elefante» o, per dirla con le parole di Giovanni
Pascoli, ecco che è possibile parlare «alle bestie, agli alberi, ai
sassi, alle nuvole, alle stelle» oppure popolare «l’ombra di
fantasmi e il cielo di dèi».
Così mi sono detto: quanto assomiglia
il costume di Torval Helmer a quello borgomanerese di qualche
decennio fa: una sorta di calvinismo agognino fatto di previdenza e
cautela, di laboriosità e accumulazione, sempre preoccupato della
reputazione del nome presso la gente, una inquietudine quasi
ossessiva che faceva esclamare in endecasillabi al mio poeta di
famiglia, nella poesia intitolata “Lesji” (Leggere):
L’è méju
léji
un libbru den
par denti
ke no
lèsjidrégghi
la vitta a la
sjénti
Il nome di Nora invece ci conduce, per
suono e per analogia, a Eleonora, alla passione, alla generosità
alla coerenza con la quale ha condotto questa fondazione per
trentotto anni, alla sua pazienza davanti alle piccinerie e grettezze
quotidiane, al grande sogno di contribuire con la cultura a un
miracolo: la costruzione di un’umanità migliore. E di passione, di
coerenza e di pazienza ce n’è voluta assai a considerare quelle
che erano le condizioni del nostro borgo all’incirca quaranta anni
fa. Quel calvinismo agognino infatti aveva ben scarsa considerazione
di quella che in senso lato possiamo chiamare la cultura. Certo la
scuola era apprezzata ma soprattutto per la capacità di insegnare un
mestiere e quindi migliorare le condizioni materiali. Per questo,
ancora negli anni Sessanta, ci si accapigliava tra i guelfi
sostenitori della necessità d’impiantare un liceo e i ghibellini
partigiani dell’istruzione tecnica e professionale. Per il resto,
il fabbisogno di cultura era soddisfatto – si fa per dire – da
alcuni cinematografi e dalla carnevalata settembrina della sagra
dell’uva. Quanto all’arte, alla musica, al teatro, all’editoria,
a giornali e riviste, Borgomanero non poteva certo vantare le
tradizioni secolari di cittadine simili a lei per dimensione e
importanza civile ed economica.
A fecondare questo terreno in gran
parte incolto o malcoltivato è venuta la Fondazione, che, con
spirito veramente previdente, il suo istitutore, Achille Marazza,
volle Casa della cultura. Villa Marazza è diventato il nostro Taj
Mahal, un grande tesoro all’interno del quale sono passate e
cresciute le generazioni, grazie al quale Borgomanero è cambiata.

Forse del valore di questa istituzione
non sempre ci si rende conto e capita di sentire affermazioni
azzardate: «Quanto spazio sprecato! Nell’era digitale [meglio
sarebbe dire: dell’ignoranza digitale], a che cosa servono tutti
questi libri?» Ebbene la risposta cercatela nelle differenze tra il
presente e il passato, cercatela nella robusta crescita del livello
medio di istruzione della cittadinanza, nello sviluppo di una domanda
di cultura più alta e più esigente, cercatela nello sviluppo
dell’economia, di nuove professionalità, di un dinamismo che ha
consentito a Borgomanero di nuotare nella società liquida e di
limitare gli effetti negativi di una grande crisi nella quale siamo
tuttora immersi.
Dentro a questo c’è anche il lavoro
culturale dei tanti operatori e sostenitori della fondazione, dentro
a ciò c’è la passione, la generosità e la pazienza di Eleonora.
Casa di bambola si conclude con
l’avvocato Torvald Helmer che rimane solo, seduto su di una
seggiola vicino alla porta a guardarsi intorno. Nora se ne va e la
porta si chiude dietro di lei. Anche Eleonora se ne va. Torna
all’amore delle figlie, ai suoi adorati nipotini, alla lettura e
alla scrittura che tanto ama e al suo mondo poetico. Tornerà di
quando in quando a specchiarsi nella «parva gemma» della marina di
Sapri che custodisce gli echi delle antiche navigazioni e delle
leggende che non hanno tempo.
A Eleonora, un caldo e riconoscente
grazie nella certezza che una parte di lei rimarrà qui per sempre.
Angelo Vecchi, Borgomanero, 25 luglio 2018