venerdì 27 luglio 2018

Leggendo CASA DI BAMBOLA, di Angelo Vecchi


Un saluto, un augurio e un auspicio per la biblioteca pubblica. Questo è il pezzo di Angelo Vecchi, che trascrivo qui, non certo per vanto ma sicura che possa essere una bella, meditativa lettura per tutti.

Protagonista di Casa di bambola, il dramma di Henrik Ibsen, è Nora.
Nora è fervida, gaia, generosa e appassionata, guidata da un profondo e personale senso del dovere e della giustizia a cui rimane fedele al di là delle convenienze e del calcolo immediato. Detesta la meschinità e spera in un «miracolo», in un «prodigio»: la capacità di chi le sta attorno di comprendere e apprezzare le ragioni profonde del suo agire, di vedere al di là di quelle apparenze che spingono il marito a chiamarla con aria di indulgente superiorità «passerotto sventato», «lucherino spendereccio», «strana creaturina» o a sbottare: «sei proprio una donna!»
Il marito di Nora si chiama Torvald Helmer ed è un avvocato in carriera. Dopo una lunga malattia e otto anni di un modesto ménage familiare, alla vigilia di Natale, ha ottenuto la promozione a direttore della banca in cui lavora. Helmer è “risparmioso”, non vuole «sciupar denaro»; è cauto, convinto che «non possiamo poi darci ai lussi»; aborrisce i debiti, «Debiti niente! Prestiti mai!»; è alla ricerca di «una posizione solida e sicura»; è laboriosissimo, tanto da usare la pausa natalizia per avvantaggiarsi nel lavoro, «felice di lavorare giorno e notte»; è molto attento alle «apparenze» legate al suo status e al suo nome. Il suo mondo finisce qui, è racchiuso da questi confini.
La lettura ci conduce per mano sulla strada del pensiero analogico. L’analogia, la scoperta di somiglianze nascoste, sorprendenti perfino bizzarre ha nutrito le radici delle parole e della fantasia, ha accompagnato per millenni il cammino dell’umanità, è stata la solida base della civiltà contadina, ha rappresentato il sale dell’immaginazione dei poeti e dei narratori delle nostre letterature.
Basta poco, un nonnulla, un punto di vista differente, un piccolo particolare rivelatore ed ecco che dentro al disegno di un cappello appare con evidenza cristallina «un boa che digeriva un elefante» o, per dirla con le parole di Giovanni Pascoli, ecco che è possibile parlare «alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle» oppure popolare «l’ombra di fantasmi e il cielo di dèi».
Così mi sono detto: quanto assomiglia il costume di Torval Helmer a quello borgomanerese di qualche decennio fa: una sorta di calvinismo agognino fatto di previdenza e cautela, di laboriosità e accumulazione, sempre preoccupato della reputazione del nome presso la gente, una inquietudine quasi ossessiva che faceva esclamare in endecasillabi al mio poeta di famiglia, nella poesia intitolata “Lesji” (Leggere):

L’è méju léji
un libbru den par denti
ke no lèsjidrégghi
la vitta a la sjénti

Il nome di Nora invece ci conduce, per suono e per analogia, a Eleonora, alla passione, alla generosità alla coerenza con la quale ha condotto questa fondazione per trentotto anni, alla sua pazienza davanti alle piccinerie e grettezze quotidiane, al grande sogno di contribuire con la cultura a un miracolo: la costruzione di un’umanità migliore. E di passione, di coerenza e di pazienza ce n’è voluta assai a considerare quelle che erano le condizioni del nostro borgo all’incirca quaranta anni fa. Quel calvinismo agognino infatti aveva ben scarsa considerazione di quella che in senso lato possiamo chiamare la cultura. Certo la scuola era apprezzata ma soprattutto per la capacità di insegnare un mestiere e quindi migliorare le condizioni materiali. Per questo, ancora negli anni Sessanta, ci si accapigliava tra i guelfi sostenitori della necessità d’impiantare un liceo e i ghibellini partigiani dell’istruzione tecnica e professionale. Per il resto, il fabbisogno di cultura era soddisfatto – si fa per dire – da alcuni cinematografi e dalla carnevalata settembrina della sagra dell’uva. Quanto all’arte, alla musica, al teatro, all’editoria, a giornali e riviste, Borgomanero non poteva certo vantare le tradizioni secolari di cittadine simili a lei per dimensione e importanza civile ed economica.
A fecondare questo terreno in gran parte incolto o malcoltivato è venuta la Fondazione, che, con spirito veramente previdente, il suo istitutore, Achille Marazza, volle Casa della cultura. Villa Marazza è diventato il nostro Taj Mahal, un grande tesoro all’interno del quale sono passate e cresciute le generazioni, grazie al quale Borgomanero è cambiata.
Forse del valore di questa istituzione non sempre ci si rende conto e capita di sentire affermazioni azzardate: «Quanto spazio sprecato! Nell’era digitale [meglio sarebbe dire: dell’ignoranza digitale], a che cosa servono tutti questi libri?» Ebbene la risposta cercatela nelle differenze tra il presente e il passato, cercatela nella robusta crescita del livello medio di istruzione della cittadinanza, nello sviluppo di una domanda di cultura più alta e più esigente, cercatela nello sviluppo dell’economia, di nuove professionalità, di un dinamismo che ha consentito a Borgomanero di nuotare nella società liquida e di limitare gli effetti negativi di una grande crisi nella quale siamo tuttora immersi.
Dentro a questo c’è anche il lavoro culturale dei tanti operatori e sostenitori della fondazione, dentro a ciò c’è la passione, la generosità e la pazienza di Eleonora.
Casa di bambola si conclude con l’avvocato Torvald Helmer che rimane solo, seduto su di una seggiola vicino alla porta a guardarsi intorno. Nora se ne va e la porta si chiude dietro di lei. Anche Eleonora se ne va. Torna all’amore delle figlie, ai suoi adorati nipotini, alla lettura e alla scrittura che tanto ama e al suo mondo poetico. Tornerà di quando in quando a specchiarsi nella «parva gemma» della marina di Sapri che custodisce gli echi delle antiche navigazioni e delle leggende che non hanno tempo.
A Eleonora, un caldo e riconoscente grazie nella certezza che una parte di lei rimarrà qui per sempre.

Angelo Vecchi, Borgomanero, 25 luglio 2018

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