" Vogliono che finiscano gli stanziamenti nella loro terra. Insomma, vogliono riprendersela, la loro terra. Vogliono essere liberi di muoversi come una volta, di muoversi con le greggi da un pascolo all'altro. Non dirò niente delle ultime incursioni contro di loro, del tutto immotivate, e seguite da atti di spaventosa crudeltà, poiché era in pericolo la sicurezza dell'Impero, così mi si dice. Ci vorranno anni per riparare ai danni fatti in quei pochi giorni".
Chi parla è il magistrato che amministra la città edificata ai margini dell’Impero e la sua pacifica, sonnolenta comunità. Un giorno piomba in città l’esercito. Che succede? I barbari oltre confine si stanno organizzando contro l’Impero, così afferma il colonnello Joll. Con la sua truppa compie razzie e violentissime rappresaglie contro le pacifiche popolazioni nomadi che vivono sui monti e oltre il fiume. Fa prigionieri e li tortura fino alla morte.
Il magistrato deve rinunciare alla sua tranquilla quotidianità, fatta di letture, di ricerche archeologiche, di intimità con una donna. Palesa la sua contrarietà alle azioni violente contro le popolazioni indigene e diviene egli stesso imputato, pericoloso nemico, prigioniero da vessare e umiliare.
Aspettando i barbari è un romanzo sull'attesa del pericolo, e anche sull'invenzione e sull'enfatizzazione di un pericolo più immaginato che imminente o possibile o reale. E quei barbari, quei nemici che non arrivano e non arriveranno mai ci portano alla memoria un altro romanzo, Il deserto dei tartari di Dino Buzzati, nel quale prevale il senso dell'attesa, mentre qui appare spietata l'ingiustizia del crimine, quel crimine che il potere consuma crudele e indifferente, perché "il crimine è in noi".
John Maxwell Coetzee, Aspettando i barbari, Einaudi 2000
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