giovedì 7 febbraio 2013

Su un vecchio appunto, di Giorgio Caproni

Ora, sazio della città - delle sue tentazioni e dei suoi crimini - 
mi sono ritirato al limitare del bosco. Ad appagarmi la vista
poco mi basta: lo scintillio del fiume nel sole del mattino, giù
a fondo valle. Un albero...


  Un albero...
                  Com'è leggero
un albero, tutto ali
di foglie - tutto voli
verdi di luci azzurre nel celeste
dell'aria...

                  E com' forte,
un albero, com'è saldo
e fermo, "abbarbicato
al suo macigno (1)"...

                 Viene
l'autunno, e come
la Fenice s'accende 
nel rosso del suo rogo.

                Viene
primavera, e splende
d'altro suo verde...

                Ma noi,
noi, al paragone,
che cosa e chi siamo, noi,
senza radici e senza
speranza - senza
alito di rigenerazione?

Da Il franco cacciatore (1973-1982)

"Il franco cacciatore  non è un libro di massime e riflessioni messe in versi. Possiamo leggerlo come un taccuino di viaggio, come un romanzo, un dramma a più voci, un libretto d'opera che nasconde in sè la propria musica. Tutto vi è chiuso, serrato, geometrico: la linea vi domina superbamente. Ma, d'altra parte, queste poesie affondano nello spazio, non hanno principio né fine, grandi buchi dividono le strofe, dividono le parole, traforano le parole, come se una mano d'aria avesse disegnato ogni lettera sul fondo del vuoto" (Pietro Citati, in Corriere della sera, 25 luglio 1982)

(1) Libera citazione da Le stagioni di Giuseppe Ungaretti: "E’ nuda anche la quercia, /ma abbarbicata sempre al suo macigno."

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