“...il pensiero degli schiavi romani è per noi un universo perduto: nessuna voce ci è mai arrivata da quel mondo, se non filtrata attraverso la sensibilità e i pregiudizi dei padroni – la scrittura non era per loro; come del resto è perduta la quasi totalità dei miseri beni che riempivano la loro vita di ogni giorno: perché sottoterra – nonostante i prodigi dell’archeologia – riusciamo a ritrovare i manufatti posseduti dai ricchi e dai potenti (grandi edifici, oggetti dell’uso quotidiano costruiti per durare), ma assai meno le cose della povera gente, ricavate da materiali più umili e deperibili, che il tempo provvedeva subito a spazzare via: cancellate – come i sentimenti, il folklore, gli stati mentali – dalla irrimediabile distruttività che la storia riserva al ricordo dei deboli” (pp. 76-77)
Inizia a Capua nel 73 a. C. la rivolta di Spartaco e finisce nell’alta valle del Sele nel 71, per mano dell’esercito di Crasso. Come nella storia di un altro “profeta”, che nascerà in una diversa terra d’Oriente pochi decenni dopo, il suo corpo non sarà mai trovato. Aldo Schiavone ricostruisce in questo libro la vicenda del trace, che aveva certamente conoscenza dell’arte militare e forse un’utopia libertaria – eversiva, anche, perché fondata sui culti dionisiaci radicati nella sua terra d’origine – e che riuscì a condurre un esercito di poveri e diseredati attraverso tutta la penisola. Con stretta aderenza alle antiche fonti e rifiutando ogni interpretazione “moderna” della rivolta (il concetto della “lotta di classe” non è applicabile all’antichità, ci fa notare l’autore, così come, all’estremo opposto, non è applicabile alla nostra presente contemporaneità) Schiavone racconta un frammento di storia “lontana” con linguaggio estremamente chiaro e con stile talvolta avvincente come quello di un romanzo.
Aldo Schiavone, Spartaco. Le armi e l’uomo, Einaudi 2011
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