sabato 1 marzo 2014

Austerlitz, di Winfried Georg Maximilian Sebald


Nella salle des pas perdus della stazione di Anversa tra le persone in attesa c'è Austerlitz, "un uomo che allora, nel '67, aveva un aspetto quasi giovanile, con i capelli biondi singolarmente ondulati". Prende appunti e stende schizzi, scatta foto all'architettura solenne della stazione, tutto materiale che gli servirà per le sue ricerche erudite. Ma, non appena il narratore gli rivolge una domanda, Austerlitz è felice di intrattenersi a discorrere con lui, perché "chi viaggia solo è in genere contento di trovare un interlocutore dopo giorni e giorni trascorsi in completo silenzio". Nasce così una confidenza che, pian piano, si trasformerà in amicizia, itinerante in luoghi diversi d'Europa.
Jacques Austerlitz soffre un sentimento di estraneità, di erranza, fondato sulla nebbia che all'inizio del romanzo vela le sue origini e la sua travagliata infanzia, che il lettore scoprirà a poco a poco, inoltrandosi a fondo nel romanzo. Una vicenda, quella di Jacques, tragica ed appassionante insieme, parte dei tragici eventi che travagliarono la storia d'Europa negli anni del nazismo.
Jacques ha trascorso l'infanzia come figlio adottivo di un pastore del Galles e ha appreso il suo vero nome solo  al momento dell'esame sostenuto per entrare ad Oxford. La ricerca delle sue origini si impone e la seguiamo nella seconda parte del romanzo, così come si segue una ricerca di quella microstoria che s'innesta nella storia ufficiale e le dà sentimenti e sostanza, perché è la storia delle gioie, delle speranze e dei dolori dei singoli. La microstoria ha nomi e cognomi quotidiani, potrebbe essere la storia di ciascuno. Seguiamo Austerlitz da Praga, città della sua primissima infanzia (bellissima la rievocazione della lingua infantile che gli torna alla memoria, grazie alla pronuncia dei numeri che, gli ricorda una ritrovata vecchia zia, egli usava contare sui bottoncini che ornavano i guanti nel negozio di famiglia), fino a Terezin (città muta di porte chiuse), dove scoprirà che avevano trovato la morte i suoi genitori, ebrei di Boemia.
Caratteristica della narrazione di Sebald, dallo stile complesso, ricco di subordinate ed incisi e tuttavia di lettura estremamente invitante e coinvolgente, è l'inserzione nel testo di fotografie che suggeriscono al lettore ora l'impressione dell'immersione nella realtà, ora la suggestione del sogno:
"A un certo punto mi fermai lungamente davanti all'entrata di una casa, disse Austerlitz, lo sguardo rivolto verso l'alto a un mezzorilievo grande circa trenta centimetri quadrati  e montato nel liscio intonaco sopra il concio dell'arco del portone, mezzorilievo che, su uno sfondo verde mare disseminato di stelle, raffigurava un cane dipinto di blu con un bastone in bocca  che il cane medesimo - come io presentii rabbrividendo fino alla radice dei capelli - aveva portato lì dal mio passato"(pag. 165).
 
W.G. Sebald, Austerlitz, Adelphi 2002
 

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