giovedì 23 febbraio 2012

L'ombrello giallo, di Joel Franz Rosell e Giulia Frances

Pesci di plastica, fiori finti dai brutti colori che cosa stanno a fare nella vetrina di un grande magazzino? Ovvio: sono merce in saldo, quella che nessuno ha comperato e ora viene venduta a prezzo basso. Insieme a loro in vetrina è stato esposto anche un ombrello giallo; giallo come il sole, giallo come un pulcino. Ma perché? Ovvio anche questo: la città è grigia e gli ombrelli sono tutti neri o marroni o, al massimo, blu di Prussia e verde scuro. L'ombrello giallo è nato solo perché un operaio, un giorno, stanco di premere sempre gli stessi tasti della macchina sulla quale era addetto alla produzione di ombrelli, ha schiacciato il tasto "giallo pulcino". Nessuno ha comperato l'ombrello giallo ed esso è finito nella vetrina dei saldi. E' molto demoralizzato per questo; tutti i suoi fratelli neri, marroni, verde scuro e blu di Prussia sono usciti ad allargare le braccia e a respirare sotto la pioggia e lui è rimasto lì, esposto solo alla polvere. Però un bel giorno arriva un personaggio bruttino e strano e lo compera. Finalmente! Anche l'ombrello giallo potrà volteggiare sotto la pioggia adesso? O conoscerà qualcosa di nuovo ed inatteso? Leggete questo bell'albo illustrato e lo saprete. La lettura è indicata a tutti, bambini e anche adulti, e particolarmente a chi vorrebbe essere sempre uguale agli altri e si interroga sul perché della propria unicità e/o diversità. E' adatta a chi si sente messo da parte e non se ne capacita. E' adatta a chi sa fare bene delle cose e nessuno gliele chiede.  A tutti costoro è adatta, e a molti altri, perché mostra - senza tante chiacchiere e senza moralismi - che diversità, solitudine, attesa possono riguardare anche chi ha un bel colore, caldo e luminoso come il sole. E che questo può accadere spesso in una città nella quale la gente è abituata ad accontentarsi del grigio.

Joel Franz Rosell e Giulia Frances, L'ombrello giallo, Kalandraka 2012

martedì 14 febbraio 2012

Spartaco, di Aldo Schiavone

“...il pensiero degli schiavi romani è per noi un universo perduto: nessuna voce ci è mai arrivata da quel mondo, se non filtrata attraverso la sensibilità e i pregiudizi dei padroni – la scrittura non era per loro; come del resto è perduta la quasi totalità dei miseri beni che riempivano la loro vita di ogni giorno: perché sottoterra – nonostante i prodigi dell’archeologia – riusciamo a ritrovare i manufatti posseduti dai ricchi e dai potenti (grandi edifici, oggetti dell’uso quotidiano costruiti per durare), ma assai meno le cose della povera gente, ricavate da materiali più umili e deperibili, che il tempo provvedeva subito a spazzare via: cancellate – come i sentimenti, il folklore, gli stati mentali – dalla irrimediabile distruttività che la storia riserva al ricordo dei deboli” (pp. 76-77)


Inizia a Capua nel 73 a. C. la rivolta di Spartaco e finisce nell’alta valle del Sele nel 71, per mano dell’esercito di Crasso. Come nella storia di un altro “profeta”, che nascerà in una diversa terra d’Oriente pochi decenni dopo, il suo corpo non sarà mai trovato. Aldo Schiavone ricostruisce in questo libro la vicenda del trace, che aveva certamente conoscenza dell’arte militare e forse un’utopia libertaria – eversiva, anche, perché fondata sui culti dionisiaci radicati nella sua terra d’origine – e che riuscì a condurre un esercito di poveri e diseredati attraverso tutta la penisola. Con stretta aderenza alle antiche fonti e rifiutando ogni interpretazione “moderna” della rivolta (il concetto della “lotta di classe” non è applicabile all’antichità, ci fa notare l’autore, così come, all’estremo opposto, non è applicabile alla nostra presente contemporaneità) Schiavone racconta un frammento di storia “lontana” con linguaggio estremamente chiaro e con stile talvolta avvincente come quello di un romanzo.

Aldo Schiavone, Spartaco. Le armi e l’uomo, Einaudi 2011

domenica 5 febbraio 2012

Dans le jardin, la libellule est morte, di Cheon Jeong-cheol e Lee Gwang-ick


Una poesia e luminosi disegni per raccontare il ciclo della vita e della morte, un libro da sfogliare, adulti e bambini, con calma e meraviglia, una favola senza tristezza per la libellula che ha finito il tempo della sua vita e giace nel giardino, ai piedi di una margherita  e
[...]
le formiche si radunano
per celebrare il suo funerale.
Davanti, le formiche più piccine
camminano in cadenza.
Dietro, le formiche più grandi
cantano un canto funebre.
E' un giorno d'autunno
e splende dolce il sole.
Il lungo corteo funebre della libellula
si snoda senza fine.
(traduzione dal francese E. B.)

Il disegno, caldo e luminoso, completa e penetra a fondo il significato della poesia: l'illustrazione smembra a poco a poco la figura della libellula in punti variopinti di luce e poi, con gli stessi frammenti di colore, ricostruisce la figura di una margherita, rivelando il ciclo della natura che, mutando, vive senza fine.
Cheon Jeong-cheol è un poeta coreano del Novecento, autore di liriche per bambini molto popolari nella sua patria; Lee Gwang-ick, l'illustratore, è nato a Seul nel 1969, in questo albo il suo disegno evoca mirabilmente le leggi della natura, in cui tutto cambia, si trasforma, assume diverse forme e nuovi colori.

Cheon Jeong-cheol e Lee Gwang-ick, Dans le jardin, la libellule est morte, Picquier 2010 (traduzione dal coreano al francese di Lim Yeong-hee)